Il sì di Ornella Muti

6 Marzo 2015 di Paolo Morati

Ornella Muti

Ornella Muti non è semplicemente un’attrice. Lo avevamo già capito da tempo immemore, ma il nostro pensiero si è rinforzato guardando e ascoltando in religioso silenzio l’intervista rilasciata mercoledì a Daria Bignardi a pochi giorni dal suo sessantesimo compleanno. Ornella Muti è, di fatto, Ornella Muti, con quella sua voce inconfondibile e sottilmente infantile quando esclama ‘sì’, quegli occhi brillanti che si incendiano sul sorriso aperto, e la testa che si piega di lato, a destra, dopo aver chiuso una frase. Quando eravamo ragazzini Ornella Muti stava alla bellezza come Pietro Mennea alla velocità. Era il prototipo, il simbolo assoluto alla quale solo un bisbetico come Elia Codogno poteva resisterle anziché rincorrerla come Barnaba Cecchini (anzi un Cecchini Barnaba) alla guida del suo autobus arancione…

Certamente, era poi la protagonista dei film: da vedere prima di tutto l’esordio casuale con Damiano Damiani nel 1970 (La moglie più bella) dove la giovanissima Ornella (al secolo Francesca Rivelli e scelta per la parte al posto della sorella Claudia) non è ancora “la Muti”, le successive incursioni d’autore in Romanzo Popolare (1974) di Mario Monicelli con Ugo Tognazzi, l’altalenante e internazionale Flash Gordon di Mike Hodges del 1980, ricordato a dire il vero più per la colonna sonora dei Queen che per la nelle intenzioni pirotecnica storia, e la tipica commedia ansiogena di Carlo Verdone (Io e mia sorella, del 1987)… e ancora altri, alcuni magari poco noti ma diversi rispetto al cliché della bellissima da commedia.

Sì perché per tanti Ornella Muti è probabilmente quella de Il bisbetico domato (1980) e Innamorato pazzo (1981) con Adriano Celentano, diretti da Castellano e Pipolo, campioni d’incassi nella loro semplicità della trama, dei quali i più devoti conoscono le scene a memoria. Lì c’è l’Ornella Muti sirena incantevole, da un lato corteggiatrice (d’antologia il litigio con Milly Carlucci al ristorante, dopo un piedino a due) dall’altro corteggiata (con un Adolfo Celi in grande spolvero nel ruolo del padre), in entrambi i casi ricca se non ricchissima e certamente poco (anzi per nulla) ingenua. In tutto questo la domanda oggi è se Ornella Muti può essere considerata una leggenda del cinema italiano come Sofia Loren o la recentemente scomparsa Virna Lisi, capaci di affermarsi. Certo è che, figlia di madre estone e padre napoletano (un mix temerario), Francesca Rivelli ha comunque raggiunto una sua notorietà anche oltreconfine (ad esempio in Spagna, dove ha girato più lungometraggi) e tentata la carta americana (Oscar, con Sylvester Stallone).

La risposta potrebbe essere che il raffronto risulta difficile anche perché si tratta di generazioni profondamente diverse: se la Loren o la Lisi hanno avuto il loro culmine mediatico in un periodo cinematografico dove il concetto di  ‘Diva’ faceva rima con eleganza inarrivabile e lusso, quello (più mainstream) di Ornella Muti è arrivato tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, a cavallo di una trasformazione del pubblico di riferimento e del contesto sociale migrato alla televisione a colori. Meno impegno e più risate spensierate, almeno nelle apparenze e nel luogo comune che la circonda, considerati i film d’autore fatti. Al di là dei confronti e delle valutazioni sulla recitazione, poche erano poi le alternative (a pensarci bene chi era la rivale estetica di Ornella Muti nel decennio magico?) a un simbolo che nella mente del maschio italiano medio, quando il Web non esisteva e si stringeva ben saldo in una mano il catalogo Postalmarket, rappresentava l’immagine femminile ideale: “Non sei mica Ornella Muti, eh!”.

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