Sottomissione, la sharia soft di Houellebecq

6 Febbraio 2015 di Stefano Olivari

Nessun marketing editoriale avrebbe potuto progettare i recenti atti terroristici di Parigi in concomitanza con il lancio di Sottomissione, con un autore preso in giro ma anche molto apprezzato dalla redazione di Charlie Hebdo. Un bene per le vendite e i diritti d’autore di Michel Houellebecq, un male per come è stato interpretato il sesto romanzo di questo genio troppo compreso e quindi vittima di etichettature da sussidiario. Libro anti-islamico, come dicono molti che non lo hanno letto? Libro filoislamico, come scrive chi si ferma alla trama? Analisi della crisi dell’Occidente secolarizzato e della sua borghesia, definizione del resto buona anche per l’autobiografia di Andrea Roncato?

Partiamo dall’ambientazione, una Francia che nel 2022 alla fine dell’era Hollande si trova in una situazione politica tutt’altro che improbabile: sinistra e destra tradizionali hanno sempre meno consenso popolare ma sono ancora la maggioranza della classe dirigente e intellettuale. La quale trova meno pericoloso flirtare con la Fratellanza Musulmana, un partito islamico moderato, che andare allo scontro frontale con Marine Le Pen e i movimenti identitari. Il protagonista è François, docente della Sorbona che vive di rendita grazie a un saggio giovanile su Huysmans ma che non si interessa più del romanzo decadente (forse perché lo vive), dividendo le energie erotiche fra studentesse e prostitute. Nella prima categoria svetta Myriam, ebrea che sta per trasferirsi in Israele con il resto della famiglia. In Francia è da qualche anno che tira una brutta aria per gli ebrei, non con prese di posizione pubbliche ma con migliaia di episodi silenziati dai media nel nome del politicamente corretto, visto che gli aggressori sono quasi sempre giovani islamici delle periferie. Il politicamente corretto silenzia anche gli scontri fra islamici ed estremisti di destra, da cui prendono le distanze sia la Fratellanza Musulmana che il Front National. In altre parole, tutti i partiti tengono a far sapere che non è in atto uno scontro di civiltà.

Il leader del partito islamico Mohammed Ben Abbes e i suoi elettori sono ben lontani, sul piano psicologico e culturale, dal terrorismo: sanno che la demografia, la presenza nell’economia francese degli stati islamici e soprattutto la secolarizzazione della società stanno lavorando per loro. Le ambiguità e l’arrendevolezza della cultura laica sono ben rese da Houellebecq, che usa il suo protagonista per descrivere la presa di coscienza che una società che non crede, e nemmeno finge di credere, in qualcosa non ha in definitiva niente da difendere se non un concetto di libertà piuttosto vuoto. Insomma, un radicale critica del laicismo e dell’Illuminismo. L’unica strada che intravvede François è quindi quella della sottomissione a un Islam che non prende il potere con la violenza ma alleandosi con la vecchia politica, tenendo formalmente solo la presidenza con Ben Abbes, che vince il ballottaggio con Le Pen grazie a questa sorta di santa alleanza, e il ministero dell’Istruzione (ironicamente Houellebecq fa scegliere come primo ministro Bayrou, ex ministro dell’Istruzione nel governo Balladur), nel lungo periodo decisivo.

Il protagonista è chiaro, ma il personaggio chiave è Rediger, il nuovo rettore della Sorbona islamizzata, il cui percorso è partito dai movimenti identitari per arrivare alla Fratellanza Musulmana (con tanto di poligamia messa in pratica personalmente). Una figura tipicamente houellebecqiana, l’intellettuale che subisce il fascino dell’autoritarismo visto come ordine e senso, felice di vivere in una Francia che sta introducendo ovunque una sharia soft. Se lo Steiner della Dolce Vita si è suicidato, Rediger trova nell’Islam chi pensa al posto suo. Ben Abbes è invece utile all’autore per ribadire il concetto che la forza dell’Islam non risiede nella sua gerarchia ecclesiastica (non è una religione gerarchica, al di là delle tante divisioni) o nella sua superiorità teologica, ma nella sua capacità di essere religione di stato che il Cristianesimo non ha più. Il progetto di Ben Abbes, uomo con un curriculum di studi da vecchia classe dirigente, non è infatti una Francia sottomessa ad altri paesi islamici, per quanto finanziatori di tante sue attività, ma una Francia islamizzata che diventi il centro di un impero sul modello dell’antica Roma o al limite del Sacro Romano Impero. Per questo l’Islam per così dire nazionalista è detestato dai liberali, ma non del tutto osteggiato dalla destra lepeniana (che ce l’ha con l’immigrazione, ma non con le religioni per quanto ottuse siano).

Il discorso di Houellebecq è molto sottile, forse non chiaro nemmeno a lui stesso, pieno di messaggi in codice ad altri intellettuali. Ogni lettore può trovarci in sostanza ciò che vuole. Conclusione? Un buon libro (in Italia edito da Bompiani), che traccia uno scenario più che possibile ma che in certe parti indulge in quella retorica del declino che dall’inizio del Novecento ammorba la cultura europea. Intelligente nel rifiutare l’equazione Islam-terrorismo, togliendo all’occidentale annoiato l’illusione che sia una questione militare o, come si scrive per rassicurare, di intelligence. Da leggere in quanto calato nello spirito del tempo, ma senz’altro zavorrato dal volere essere al centro del dibattito con una tesi peraltro molto forte e cioè che alla gente, anche a quella con un’istruzione, della propria libertà non importa poi così tanto.

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