Il flop annunciato di Emma

12 Maggio 2014 di Paolo Morati

Emma Eurofestival

Dunque il palco dello Eurovision Song Contest – dove ha trionfato l’austriaca Conchita Wurtz mentre Emma ha registrato un flop clamoroso – si è distinto ancora una volta per lo spazio dato ai lavoratori. Un paio di anni fa c’erano le vecchiette fornaie russe mentre quest’anno le giovani (e belle) lavanderine polacche. A parte questa nota di colore, cominciamo con l’ammettere di aver tifato contro il blocco scandinavo e dell’Europa orientale perché finalmente la manifestazione andasse oltre i soliti noti, pur tenendo conto della qualità delle canzoni.

E in effetti siamo stati ascoltati, con la seconda vittoria per l’Austria nella storia dell’ESC. A non essere stata ascoltata (o forse troppo, potrebbe dire qualcuno) è invece Emma che ha incassato quello che è sostanzialmente e per diversi motivi il peggiore risultato di sempre per l’Italia: addirittura ventunesima sui ventisei finalisti di Copenaghen. Prevedibile, considerato che se da un lato La mia città è comunque un buon brano (lo avevamo già scritto, pur non essendo studiato per la manifestazione), energico il giusto, dall’altro la sua performance live ha comunque sposato troppo lo spirito di un tempo dell’Eurofestival dal punto di vista del look, in special modo in un momento in cui si cerca di tirare un po’ il freno a mano su certe trovate kitsch (evitabile il catwalk). E con molti bookmaker che anche dopo le prove non l’hanno mai considerata per una posizione sul podio.

Salvata sostanzialmente da Albania e Malta, grave è che Emma sia riuscita a non prendere alcun voto da paesi storicamente amici della musica italiana, come Spagna e Portogallo, oltre che da San Marino (ma lì contavano solo le giurie), Svizzera, Grecia e molti (troppi) altri. Un segnale chiaro di come il pubblico dello Eurovision Song Contest si aspetti da noi più in generale quel pop di qualità e stile che caratterizza da sempre l’export tricolore con nomi come Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Umberto Tozzi, Tiziano Ferro e un universo melodico del quale siamo ritenuti maestri. Fin dall’annuncio, senza passare da Sanremo (il che, lo ricordiamo, comunque non è obbligatorio), la scelta della Marrone ci è sembrata rientrare in una logica di investimento promozionale (in uscita il suo album in lingua spagnola) verso l’estero, supportata anche da una preparazione scenografica e di esibizione studiata nei minimi dettagli. E dalla giusta scelta di cantare in italiano. Vedremo a questo punto se il gioco (e l’azzardo di un video che ha fatto discutere e che forse ha anch’esso pesato qualcosa) sarà valso la candela al di fuori della manifestazione, anche se l’umile consiglio che vorremmo darle è quello di non conformarsi troppo al gusto mainstream dilagante.

Ma veniamo alla vincitrice Conchita Wurst. La ‘drag queen’ austriaca con la barba ha dunque stregato giurie e televotanti forte non solo dell’evidente messaggio di tolleranza ma anche di una buona performance vocale su un brano (Rise like a Phoenix) estremamente classico. Da parte nostra preferivamo comunque il duo olandese, The Common Linnets, che con Calm after the Storm sono cresciuti nella settimana riportando ai piani alti il loro paese grazie a una scelta di qualità che ha fatto seguito a quella dello scorso con Anuk. Male ancora una volta il Regno Unito, debole e giustamente non premiata la proposta tedesca, malissimo la Francia (ultima) che con un’invenzione spiritosa viene fin troppo punita. Insomma, se l’Italia piange anche gli altri ‘big’ non ridono. Splendido infine lo spettacolo televisivo, con scenografie personalizzate in modo eccellente, e il consueto ottimo ritmo serrato che non lascia spazio alle chiacchiere bensì (come si dovrebbe fare un festival di canzoni) alla musica. Se la RAI virasse verso lo stesso modello per Sanremo non sarebbe male: tre serate, 30 brani in gara, 20 in finale e voti a livello regionale. Un sogno?

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