Il sistema di Geronzi

17 Luglio 2013 di Stefano Olivari

Confiteor, scritto con le domande di Massimo Mucchetti e le risposte di Cesare Geronzi, è uno dei tanti titoli che stanno rilanciando la formula del libro-intervista sia sotto il profilo delle vendite (a provarlo anche l’operazione Madron-Bisignani, riuscita decisamente meglio) che sotto quello della chiarezza nell’esposizione. Essere chiari non è un delitto, se si scrive per i lettori e non per una conventicola a cui mandare segnali in codice: questa la principale (e dimenticata) lezione di Montanelli, valida anche per chi deve occuparsi del tabellino degli infortunati del Bari. In Confiteor, che in latino significa ‘Confesso’ e che non a caso è il nome di una famosa preghiera, la chiarezza non manca. Un libro da noi letto fuori tempo massimo, con Mucchetti passato nel frattempo da firma economica di punta del Corriere della Sera a senatore del PD, ma che non ha perso la sua forza perché agli avvertimenti buoni per il presente l’ex numero uno della finanza italiana unisce anche retroscena del passato e soprattutto la spiegazione di meccanismi inconcepibili (anche se comprensibili) per chi è convinto della genuinità di certe contrapposizioni politiche ed imprenditoriali (la storia del ‘Convertendo’ Fiat è in questo senso illuminante). Non è per caso che Geronzi si è guadagnato sul campo la qualifica di ‘banchiere di sistema’, pur venendo lui da un mondo ben preciso (la mitica finanza cattolica, o bianca che dir si voglia). Che, tradotto, significa banchiere che nel nome di un vago concetto di stabilità scarica sulla collettività i danni dell’incapacità di aziende formalmente private ma legate ad interessi politici. La cosa che più colpisce, nell’analisi di Geronzi, non sono i tanti retroscena di vicende finanziarie con protagonisti quei soliti venti nomi, quanto la sua visione del ruolo della banca nella società. Un ruolo notarile, ad essere generosi. Abbiamo letto il libro, edito da Feltrinelli, ripercorrendo anche le varie tappe della carriera di Geronzi: da responsabile dei cambi alla Banca d’Italia alla Cassa di Risparmio di Roma e alla sequenza di acquisizioni, fusioni e incorporazioni che alla fine del percorso hanno portato Capitalia (comprendente anche il Banco di Santo Spirito e la più famosa, nel resto d’Italia, Banca di Roma) nella pancia di Unicredit e in definitiva alla scomparsa di una grande banca con proprietà romana. Grandi stipendi e grandi cariche, ma chiaro declino, con Mediobanca e Generali, e modeste rivelazioni. Nessuno dei grandi retroscena della finanza italiana viene presentato in una luce nuova: solo qualche allusione, come nel capitolo sulla massoneria. E anche il calcio italiano, che per almeno un decennio Geronzi ha controllato tramite varie squadre (Roma, Lazio, Parma, Perugia), un suo grande simpatizzante (Moggi), un suo amico (Carraro) e tanti presidenti legati al credito bancario per le loro attività primarie, viene liquidato frettolosamente. Troppo, per una realtà che muove buona parte dell’economia del paese e che è strumento di consenso insostituibile, almeno al pari di quel lavoro impiegatizio che per decenni ha illuso la classe media che il figlio ‘laureato’ avrebbe avuto un lavoro per diritto divino. Al termine della lettura a colpire sono soprattutto le omissioni, anche sui temi lanciati da Mucchetti (quasi sempre le domande sono più interessanti delle risposte, cattivo segno) e che Geronzi formalmente tratta, dal rapporto con Fazio a tutto il resto. Ma sopratutto, in un libro che per tre quarti parla di banche, colpisce che nemmeno in una riga ci sia un’idea della banca diversa da quella di distributrice di posti di lavoro e garante di equilibri decisi altrove. Nel mondo di Geronzi, come da lui fumosamente ammesso (”Fare banca al centro-sud non è come farlo al Nord”), gli imprenditori fuori dal sistema non esistono. Non ci sono idee o progetti per cui chiedere finanziamenti, ma solo favori e aggiustamenti. Questo il grande messaggio, non sappiamo quanto consapevole, di un libro che lascia poco. Come del resto Geronzi.

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