Quando il gioco era Maschio

5 Giugno 2012 di Indiscreto

Avevo undici anni e mezzo, quando successe. Vivevo a Bologna, ero già sivoriano. La Battaglia di Santiago fu la prima grande zuffa di sport alla quale assistetti in salotto, davanti al televisore. Avrei giurato sulla “diretta”, invece no: solo differita. Due giugno 1962, mezzo secolo fa: Cile due, Italia zero. I Mondiali, gli oriundi, e quella baraonda da saloon, brutta, sporca, cattiva. Alberto Facchinetti l’ha recuperata dalla polvere dell’archivio per ricavarne un libro, questo, dal titolo secco, senza sottofondi ambigui o ruffiani: La Battaglia di Santiago. Punto.

Alberto ha fatto di quella partita il suo Titanic, e per investigare le cause scatenanti del tutti contro tutti è andato a caccia di chiunque potesse offrirgli un indizio: protagonisti, testimoni diretti e indiretti, libri, giornali. Ha scomodato i vivi e “disturbato” i morti. Ha ricostruito la rissa in laboratorio, non già per il gusto perverso di alterare la sequenza e vendicare torti vari ed eventuali; semplicemente, per documentare la genesi e le tappe del finimondo. L’autore ha intervistato anche il sottoscritto. Non dimenticherò mai lo stupore con il quale accolse e raccolse la risposta alla domanda “Cosa ricordi di quel casino?”. Gli snocciolai la formazione del Cile, dall’uno di Escuti all’undici del famigerato Leonel Sánchez. Tutti, senza sbagliarne uno. Ricordavo loro, i cileni: non gli italiani. Tracce patenti di esterofilia galoppante, sintomi di malattie che mi avrebbero contagiato e accompagnato non solo nel lavoro. In parole molto povere, l’attrazione irresistibile per lo stretto superfluo.

Fatti, non parole. O comunque: parole per raccontare, e spiegare, i fatti – e i fattacci – del Sessantadue, dagli “scripta manent” di Antonio Ghirelli e Corrado Pizzinelli, gli inviati che illustrarono il Cile in maniera tale da far arrabbiare i cileni, ai “verba volant” in campo e dintorni, fino ai pugni e all’isteria indiscriminata che portarono all’espulsione, già nel primo tempo, di Giorgio Ferrini e Mario David. Il libro arriva al corpo a corpo dello stadio Nacional passando attraverso la formula sin troppo democratica e democristiana che aveva sbriciolato la direzione tecnica della nostra Nazionale, lasciandola in balìa di Paolo Mazza e Giovanni Ferrari, a loro volta succubi delle informative dei giornalisti, come documentano le romanzesche doglie che produssero il parto degli undici anti Cile, senza Omar Sivori e Gianni Rivera, e con Angelo Benedicto Sormani in vantaggio su José Altafini fino all’ultimo conciliabolo, e poi da costui scavalcato.

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