Zeman e l’Italia che scopre il Lugano

18 Giugno 2015 di Stefano Olivari

Fino a quando sarà allenato da Zdenek Zeman il Lugano sarà senza alcun dubbio la squadra straniera più seguita dagli italiani, al livello di Barcellona o Chelsea. Perché il presidente Renzetti dopo avere detto no alle offerte di Mino Raiola non ha ingaggiato soltanto un grandissimo costruttore di squadre e di giocatori, ma un uomo che nella sua patria d’adozione è ormai da anni considerato un’icona anti-Juventus, sia dai simpatizzanti che dagli antipatizzanti. In gran parte a torto, ma non sottilizziamo. Tutto parte dall’intervista del 1998 concessa all’Espresso, in cui l’allora allenatore della Roma parlò di abuso di farmaci nel mondo del calcio, invitando gli sportivi ad “uscire dalle farmacie”. Zeman si riferiva a varie squadre, senza peraltro nominarle, ma ovviamente quella più in vista era la Juventus del primo ciclo di Lippi e Moggi, che da quel momento gliela giurò. Il resto lo ha fatto il sistema mediatico italiano, in buona parte controllato dalla famiglia Agnelli. Così Zeman, contro le sue intenzioni, in ogni squadra allenata dal 1998 in poi, ha dovuto rispondere a domande su farmaci, doping, Calciopoli e qualsiasi argomento toccasse anche alla lontana la Juventus, visto che molti opinionisti hanno preferito mettergli in bocca i propri pensieri invece di esporsi direttamente. Tutto paradossale, dal momento che il sessantottenne boemo era tifoso juventino (adesso di sicuro un po’ meno) ed i suoi inizi nel calcio italiano sono avvenuti anche grazie al fatto di essere il nipote di Čestmir Vycpàlek, che da allenatore vinse con la Juventus due scudetti (1971-72 e 1972-73), ma comunque utile a spiegare perché nei prossimi mesi il Lugano sarà oggetto di un’attenzione particolare non soltanto in Italia ma in generale al di fuori del Ticino.

Detto questo, bisogna rispondere subito alla madre di tutte le domande quando si ingaggia un allenatore così anziano: Zeman ha ancora qualcosa da dare al calcio? La risposta la daranno i bianconeri (…) sul campo, ma dovendola proprio anticipare è un sì. Tre stagioni fa, quando Zeman di anni ne aveva sessantacinque, il suo Pescara conquistò una promozione in serie A mettendo in mostra un gioco fantastico e soprattutto lanciando giocatori sconosciuti, che grazie al lavoro di Zeman avrebbero arricchito il Pescara e i loro conti correnti personali. Da Verratti, subito dopo quella stagione ingaggiato dal PSG, a Immobile, capocannoniere e poi arrivato in nazionale e al Borussia Dortmund, passando per Insigne (nazionale e Napoli), Romagnoli (nazionale Under 21, adesso nel Carpi appena arrivato in A) e Capuano (anche lui nazionale Under 21 e nell’ultima stagione nel Cagliari zemaniano), parlando soltanto dei più giovani fra i tanti che gli devono qualcosa di più dell’apprendimento del 4-3-3, che rimane lo schema principe del boemo ma non l’unico.

I princìpi infatti non riguardano tanto i numeri sulla lavagna, quanto l’atteggiamento: la sua difesa a quattro deve essere sempre ‘alta’, i centrocampisti a turno si devono inserire, la punta centrale deve muoversi per creare spazio alle ali. Un calcio che non ha bisogno di doping, anche perché Zeman nasce come insegnante di educazione fisica, ma di entusiasmo: più assalto che gestione, più convinzione che paura. Che poi certo movimenti siano mutuati da quell’hockey su ghiaccio che rimane il suo sport preferito, come dicono sia la leggenda sia lui stesso, è poco più di una curiosità.

Lo Zeman allenatore nasce nella Sicilia degli anni Settanta, dove aveva raggiunto lo zio dopo il soffocamento nel sangue della Primavera di Praga (non che lui fosse un dissidente nel mirino dell’URSS, semplicemente non era comunista): squadre dilettantistiche e campi infami ma pressioni professionistiche, fino alla grande occasione che si materializza a trentadue anni con il settore giovanile del Palermo. Nel 1983 il salto con gli adulti, sempre in Sicilia, a Licata: tre anni ottimi, resi memorabili dalla promozione in serie C1. È ancora l’epoca delle grandi discussioni tra cultori del gioco a uomo e di quello a zona, distinzione che con gli occhi di oggi fa sorridere. Comunque gli allenatori che applicano il secondo metodo, al di là dello schema sulla lavagna, sono ancora in minoranza ma sono alla moda e quindi il nome di Zeman comincia a circolare in tutta Italia. Lo ingaggia il Foggia in C1, fa bene e l’anno dopo lo chiama il Parma in serie B: Sacchi è appena andato al Milan e tutti chiedono per sostituirlo un allenatore con la stessa cultura. Dopo pochi mesi sarà però esonerato, più per incompatibilità con i dirigenti che per i risultati, rifugiandosi nell’amata Sicilia dove riparte da Messina, sempre in serie B, dove disputa una buona stagione ed è l’artefice dell’esplosione di un certo Salvatore Schillaci: capocannoniere del torneo e subito preso dalla Juventus, un anno prima delle notti magiche di Italia Novanta.

A questo punto lo rivuole il Foggia, dove il presidente Casillo e il direttore sportivo Pavone propongono a Zeman un progetto a lungo termine, nonostante lui preferisca ragionare stagione per stagione senza farsi illusioni per il futuro. E quel Foggia diventa la ‘vera’ squadra di Zeman, quella che tutti indicheranno a modello anche negli anni successivi. Preparazione atletica pazzesca, per i canoni dei calciatori di allora, occupazione del campo totale, atteggiamento sempre propositivo, ma soprattutto tanti sconosciuti da lanciare verso la gloria: dopo due anni arriva la promozione in A e la consacrazione di Baiano, Signori, Rambaudi, Shalimov e tanti altri, tutti venduti per cifre incredibili.

Nel 1994 Zeman ha quarantasette anni e non ha ancora allenato un club di alto livello: l’occasione arriva con la Lazio, dove ritrova proprio Signori e Rambaudi. È subito secondo posto, dietro alla migliore Juventus di Lippi. Bene anche il secondo anno, con un terzo posto, ma al terzo paga il cattivo girone di andata e viene esonerato, dopo però aver fatto acquistare Nedved e lanciato giovani come Nesta e Di Vaio. Pochi mesi di inattività e subito l’occasione con la Roma dell’emergente Totti, che la stagione prima si è salvata a fatica. In due anni un quarto e un quinto posto, l’amore incondizionato della piazza, il miglior attacco del campionato e il lancio di un Damiano Tommasi che forse oggi è il personaggio, fra quelli che contano (è presidente dell’Associazione Italiana Calciatori), più vicino all’etica zemaniana. Tante belle cose ma anche le famose polemiche sui farmaci, che gli costano la panchina giallorossa e la carriera ad alto livello. A cinquantadue anni ha nel curriculum soltanto due eseoneri, uno in meno alla stessa età di quel Lippi al quale viene spesso paragonato. Il presidente della Roma Franco Sensi gli spiega, con la morte nel cuore, che “Mi hanno detto che con te in panchina non ci faranno mai vincere”. Sono gli anni peggiori della storia del calcio italiano, con episodi scandalosi e scudetti che sembrano quasi assegnati a tavolino: sia quelli della Juventus che quelli ‘contro’ la Juventus, tipo Lazio 1999-2000 e Roma 2000-2001.

Dopo Roma Zeman passerà, per pura ansia di allenare e tante porte chiuse in faccia, da una situazione difficile all’altra, con finali già scritti: Fenerbahce (dimissioni), Napoli (esonero), Salernitana (esonero). Ad Avellino ritrova Casillo e Pavone, ma non si prosegue causa retrocessione in C1. Nel 2004 altra occasione in A, al Lecce, dove fa benissimo lanciando Vucinic, Cassetti, Bojinov, ma senza sviluppi. Una parentesi a Brescia, un ritorno a Lecce concluso con esonero, la brevissima parentesi alla Stella Rossa Belgrado, il secondo ritorno a Foggia ancora con Casillo-Pavone: B sfiorata, ma non si può fermare il tempo.

Il resto è storia praticamente di oggi, dal memorabile anno a Pescara al ritorno alla Roma, dove però si accorge subito di essere stato messo lì per la piazza. Questo non gli impedisce di lanciare altri giovani, fra i quali Florenzi, e di valorizzare giocatori poi venduti a cifre stratosferiche come Lamela e soprattutto Marquinhos, prima dell’esonero. Grottesco l’ultimo anno a Cagliari, dove i neoproprietari lo esibiscono come biglietto da visita per esonerarlo dopo pochi mesi in favore di Zola, richiamarlo e poi metterlo in condizioni di dare le dimissioni. Non è mai stato un buon gestore di spogliatoi di anziani, soltanto nella Lazio e nella Roma ha trovato gente con personalità e status, ma se il Lugano cercava un maestro di calcio, con l’obbiettivo di costruire qualcosa e lasciare una traccia, non poteva scegliere meglio.

(pubblicato su Il Giornale del Popolo di martedì 16 giugno 2015)

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