Vola Colombia

20 Maggio 2014 di Simone Basso

Prima settimana di corsa rosa scoppiettante, con molti incroci pericolosi (…). Saranno i punteggi del World Tour o le preparazioni con l’srm, ma il mucchio selvaggio di pretendenti pare aver ridotto al minimo i vuoti di sceneggiatura. Si rivelano gli eredi di Petacchi e Cavendish (Kittel e Bouhanni), le promesse di un australiano che vincerà parecchio (il Matthews in rosa per sei dì) e quelle di un toscano che assomiglia a Bitossi (Diego Ulissi da Cecina). La classifica vera conta undici nomi, col curioso testa coda di due vecchi lupi di mare legati al povero Aldo Sassi: Cadel Evans, primo e con il bonus del miglior gregario del plotone (un eccezionale Steve Morabito), e Ivan Basso, undecimo. In mezzo, gioventù di gran talento – Aru e Kelderman – e personaggi alla ricerca dell’ultimo passo, il più difficile, verso la consacrazione: Majka, Pozzovivo e Kiserlovski. Giovedì, con la crono langarola, lo scenario si modificherà definitivamente: arrivano le montagne, dalle Prealpi piemontesi alla Carnia, passando per i Monti Pallidi, e la musica cambia. 

I più attesi lassù, salendo a Plan di Montecampione o la Martelltal, non saranno europei o australiani, ma atleti di origine amerinda con un retroterra antico e fiero…Non sappiamo se i quindici colombiani presenti al Giro – alla partenza da Belfast – siano un primato dell’era moderna, è probabile, ma il dato statistico rafforza l’impressione tecnica di una scuola che è tornata ai massimi livelli. E che addirittura, leggendo le carte d’identità dei primattori, potrebbe divenire egemone nel contesto delle grandi corse a tappe. In primis col talento purissimo di Nairo Quintana, il capotribù, e poi con Rigoberto Uran Uran, Carlos Alberto Betancur, Julian Arredondo, Fabio Duarte, Sergio Henao, Esteban Chavez, etc. La Colombia ha riallacciato i ponti con la sua tradizione ciclistica, la più importante del Sudamerica. Un mondo a sè, che crebbe scapigliato, selvaggio, strada e pista, con un canale privilegiato verso l’Europa. Alla figura bizzarra, avventurosa, di José Beyaert qualcuno (Matt Rendell) ha dedicato un (bel) libro; il francese, olimpionico a Londra 1948, divenne una sorta di trait d’union tra il nuovo mondo e il vecchio continente. Attraverso il Clasico RCN e la Vuelta a Colombia, corse durissime, disputate ad altitudini proibitive per noi europei, si sviluppò lo stereotipo ancora oggi efficace dello scalatore andino. Come dichiarò divertito Bernard Hinault, un Grandissimo che disputò quelle gare: “Se ne andavano via come conigli ai piedi della salita e mi era impossibile seguirli“. 

Eppure il primo colombiano che emerse da noi, il leggendario Martin Rodriguez, era un rouleur di rara efficacia. Cochise fu luogotenente (di lusso) di Felice Gimondi, prima alla Salvarani, poi alla Bianchi. Passista straordinario, polivalente, che divenne iridato nell’inseguimento dilettanti (1971), nonchè primatista dell’ora nei puri, da professionista (ormai trentenne) si impose in un Trofeo Baracchi (1973) e in due tappe del Giro. Esibì, al contrario del connazionale Rafael Nino (per un anno in Italia – 1974 – alla Jollj Ceramica), le stimmate del fuoriclasse. Difatti i colombiani, almeno quanto sovietici, polacchi e tedeschi orientali, forzarono l’idea dell’Open, del superamento delle vecchie frontiere politiche e sportive. Nel 1980 il successo, storico, di Alfonso Flòrez al Tour de l’Avenir – ai tempi, col Giro delle Regioni e la Corsa della Pace, una delle tre massime ribalte internazionali degli “amatori” – sdoganò definitivamente l’interesse di tutti verso i sudamericani: il figlio prediletto di Bucaramanga resistette, stoico, alla rimonta prepotente di Sergei Soukhouroutchenkov, il Merckx del Volga.

Così, nel 1983, dilettanti sponsorizzati Varta, una formazione con Jimenez e Corredor si schierò al Tour de France; l’anno dopo, colla vittoria a L’Alpe d’Huez di Lucho Herrera, il loro destino si modificò per sempre. Il 1985, l’esordio dello squadrone pro Cafè de Colombia, rivelò un universo parallelo ai suiveur del vecchio ciclismo. L’Herrera di quel Tour si trasformò in un’icona del decennio, il prototipo del grimpeur alato: talmente irresistibile in salita, un extraterrestre, che la prima volta che vedemmo Pantani lo soprannominammo “Lucio” El Jardinerito diede spettacolo dominando due frazioni: Hinault e le generose prebende di Tapie lo convinsero a non esagerare con gli attacchi… Herrera, ahilui, non ebbe più – in Francia – un’occasione del genere; al bilancio trionfale si aggiunse una tappa vinta da Fabio Parra, maglia bianca ai Campi Elisi a fianco di quella a pois (per manifesta superiorità) di Lucho.

Già, Herrera e Parra. Trasposizione bunuelesca (epoca “Los Olvidados”) della rivalità tra Coppi e Bartali, i due regalarono emozioni fortissime a un popolo che impazziva per le loro gesta. Ascoltando le radiocronache notturne, in diretta, urlate da cronisti pittoreschi e instancabili. Herrera fece sua la Vuelta 1987, un romanzo di Marquez più che una corsa in bici, Parra fu il primo sudamericano a salire sul podio della Grande Boucle (1988). Lucho, leggerissimo en danseuse, era tatticamente irrazionale: avesse imparato il mestiere in Europa, il palmarès (già ricco) sarebbe diventato sontuoso. Fabio, più completo, che in montagna amava le progressioni da seduto, col rapporto lungo, sfiorò il Giro di Spagna 1989. Forse l’edizione più bella di sempre, un testa a testa senza esclusioni di colpi bassi con l’idolo di casa Perico Delgado. Il loro tramonto agonistico, all’alba dei Novanta, preconizzò il declino del movimento. Acuito principalmente da due fattori: l’inasprimento della guerra civile che insanguinò il paese e che coinvolse anche lo sport. Le Farc rapirono Herrera “pensionato” e poi lo rilasciarono; Florez, l’eroe dell’Avvenire 1980, fu assassinato. Malgrado i Meija, Rincon, Cacaito Rodriguez, i mori delle Ande divennero caratteristi secondari in un blockbuster chiamato Epolandia. Le loro peculiarità fisiologiche, naturali, nell’era dell’ematocrito impazzito non servivano più…

L’anno di svolta, simbolico, l’annuncio del loro ritorno in massa, fu il 2010. Quando dominarono competizioni under 23 (e 25) come il Girobio, con Betancur e Beltran, e il Tour de l’Avenir (un dolce deja vu) dove svettò un Quintana bambino.
Il sistema di reclutamento giovanile dei club, che è un prodotto della loro passione per la bici, li tutela: riescono a produrre corridori malgrado le distanze (trentadue dipartimenti…) e i pochi soldi. La terra gli regala un corredo genetico unico. Hanno fantasia e fame; espressione felice di un universo autoctono, portatore sano di storie bellissime, ataviche e crudeli.

Pubblicato da Il Giornale del Popolo del 20 Maggio 2014

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