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Basket

Via Roma e via da Roma

di Simone Basso

Pubblicato il 2014-12-09

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Nell’Nba c’è regular season e regular season. La recente Memphis-San Antonio è stata un’anticipazione delle finali occidentali, se non fosse quella conference una bolgia. Due franchigie con un’identità di gioco precisa: la palla in post, l’alto-basso dei Grizzlies; il Good To Great, la ricerca dello spacing perfetto degli Spurs. Al massimo livello della pallacanestro mondiale, sul taccuino degli appunti rimangono diverse osservazioni… Una famiglia bene catalana ha regalato all’Europa la coppia di lunghi più forti del dopo Sabonis. Le visioni di Ginobili e il basket percentuale di Conley decideranno le sorti dei combo. I finti magri Boris e Zach pure. Su tutti, proietta la sua ombra lunga Tim Duncan, ieratico e dominante. La lettura del tagliante, i blocchi ciechi perfidi – irregolari e quasi mai sanzionati – nella schiena del difensore, ormai nello standard (diabolico) di Charles Oakley. La maestria nell’aiuto, o nell’accenno, i tap-in saltando il giusto (il New York Times aperto…): l’intelligenza dispiegata ovunque, in ogni fase. Medesimo chassis di sedici anni fa, matricola, quando capimmo definitivamente di esserci imbattuti nel Kareem Abdul-Jabbar dei quattro. Era a Detroit, senza Robinson al fianco, opposto ai Pistons di Grant Hill, raddoppiato, triplicato senza pietà. Gli Speroni non praticavano la pallacanestro esaltante di oggidì, ma un canovaccio brutto quanto efficace. The Big Fundamental partiva fronte a canestro, al pari di una guardia, e saltava, eccome se saltava, ma quella contesa la vinse leggendo le situazioni, difensive e offensive. L’aspetto più incredibile è che se la Pop Band non fosse tornata alle Finals, molti considererebbero il caraibico un gran giocatore e basta. La realtà è che stava nella lista – inutile quanto suggestiva – del Più Grande Di Sempre già dieci anni fa.

“La comunicazione visiva si attua, oggi, come contagio, abreazione o riflesso. A essa manca ogni riflessione estetica. … Al giudizio di gusto I like (‘mi piace’), per esempio, non è necessario un esame attento. Le immagini cariche di valore di esposizione non rivelano alcuna complessità. Sono univoche, cioè pornografiche. A esse manca ogni opacità che sarebbe prodotta da una riflessione, da una verifica e un pensiero. La complessità rallenta la comunicazione. … Il senso è lento, è di ostacolo ai circuiti accellerati dell’informazione e della comunicazione. Così, la trasparenza coincide con un vuoto di senso. La massa di informazioni e di comunicazioni si origina da un horror vacui”.  (Byung-Chul Han)

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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