Via Craxi?

25 Gennaio 2017 di Stefano Olivari

L’Italia non ha ancora fatto davvero i conti con Bettino Craxi, come dimostrano le polemiche su una eventuale via da intitolargli a Milano in un paese che di vie ne ha intitolate a cani e porci: tante via Lenin (77! Ce n’è una anche a Roma…) e via Guevara (67), per non parlare dei mille generali incapaci che infestano la nostra toponomastica, da Cadorna a tanti altri. Abbiamo letto dell’esistenza anche di una via Stalin, ma controllando nei vari stradari online non l’abbiamo trovata in alcun paese e quindi la consideriamo una notizia alla Lercio. Va detto poi che di vie (o piazze) intitolate a Craxi in Italia ce ne sono 14, contro le 477 intitolate a Berlinguer, le 31 ad Almirante e una sola a Giulio Andreotti, sempre che non sia un omonimo.

Quello della via è chiaramente un discorso mediatico, che dà visibilità alle dichiarazioni di qualche oscuro consigliere comunale, ma possiede anche una base politica sostanziale. Nella testa di molti italiani, soprattutto di sinistra ma non solo, è in qualche modo storicizzato il fatto che Craxi sia stato un personaggio negativo della nostra storia ed accettato che due dei tre maggiori partiti italiani, il PSI di Craxi e la DC, siano stati nel giro di un paio d’anni azzerati dalla magistratura al di là delle tante responsabilità individuali, come se fosse una cosa normale. Una follia, ma sempre meno di dimenticare ciò che Craxi ha rappresentato dal punto di vista politico: la concretizzazione del sogno turatiano di coniugare socialismo e libertà, il riformismo contro il massimalismo, l’essere un partito di sinistra ma fermamente europeista e atlantista, il decisionismo nella democrazia contro la palude parlamentare, il patriottismo di stampo risorgimentale contrapposto all’autodenigrazione perenne. Temi progressisti e vagamente renziani, potrà osservare (non a torto) l’incattivito lettore del Fatto Quotidiano adesso impantanato fra mille distinguo garantisti.

La cosa che ha sempre fatto impazzire le autoproclamatesi élite giornalistiche e culturali è però sempre stata l’autonomia di Craxi, nei fatti ma anche nel nome: la corrente autonomista del PSI, di cui lui era leader, nel 1976 era assolutamente minoritaria in un partito diviso fra demartiniani, lombardiani, manciniani e altri che abbiamo dimenticato (per conoscere le logiche del PSI degli anni Sessanta e Settanta consigliamo lo straordinario ‘Benedetto Bettino’, di Giancarlo Galli, crediamo ormai lo si trovi soltanto di seconda mano). Un partito che a quasi trent’anni dal frontismo ancora si trovava in uno stato di sudditanza psicologica rispetto al più organizzato e duro PCI. Al Midas un 42enne Craxi divenne segretario del PSI, scalzando De Martino, più per una serie di veti incrociati che lo favorirono che per la sua forza in termini di delegati (dal 10 a non più del 20%). Da lì in poi, avendo in mano il pallino del gioco, riuscì a intercettare un’Italia che stava cambiando perdendosi probabilmente i nostalgici della vecchia base. La sua scommessa era di trasformare il PSI in un grande partito di opinione e in parte l’avrebbe vinta, portandolo dal 10% scarso del 1976 al 15% in un’epoca in cui gli spostamenti di pochi decimali erano una grossa impresa, fra l’altro diventando presidente del Consiglio per quattro anni. Ma aveva probabilmente sopravvalutato l’Italia degli Ottanta, ancora legata alle rassicuranti chiese democristiana e comunista.

Alcune intuizioni giuste in economia, materia di cui non sapeva quasi niente e per cui si circondava di buoni consiglieri come Francesco Forte ma anche di cattivi che lo portavano lontano dal mondo della produzione, e in politica estera, prima fra tutte che l’Italia dovesse gestire il Mediterraneo con un sistema di relazioni, turandosi il naso, invece che esserne succube. Non aveva davvero torto… Le tante rievocazioni di Sigonella lo hanno fatto passare per anti-americano, mentre senza di lui mai sarebbero stati installati in Italia i Pershing e i Cruise in risposta agli SS20 sovietici. Quanto al garantismo e al feeling (a giorni alterni) con Pannella, risalgono a ben prima di entrare nel mirino della magistratura. Non mancano ovviamente, sempre stando sulla politica, le situazioni da mettere al passivo: l’esplosione del debito pubblico che proprio nei suoi anni Ottanta avrebbe superato il 100% del PIL, il nuovo concordato con il Vaticano che ci fece perdere il treno dello stato laico (oggi ne avremmo bisogno più che mai), la furba ma poi non tanto strategia di alleanze diverse sul piano locale (molti comuni governati con il PCI) e nazionale (pentapartito), ma soprattutto, secondo noi (tutto è secondo noi, ogni tanto va ricordato), l’aver tollerato all’interno del PSI una classe politica locale spesso impresentabile mentre sognava di fare lo statista a capo di un grande partito di opinione. Di sicuro non è così difficile capire perché il PCI e i suoi intellettuali organici abbiano messo nel mirino lui invece del teorico vero avversario, la DC. Insomma, difficile dare un giudizio netto sull’uomo politico, ma gli obbiettivi erano sicuramente migliori e i metodi più democratici di quelli di Lenin o di Togliatti: per il Migliore (migliore forse rispetto a Stalin) 570 fra vie e piazze.

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