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Il vecchio con il plaid davanti ad Emis Killa
Stefano Olivari 04/06/2014
I Music Awards, già Wind Music Awards (solo che quest’anno Wind non ha tossito soldi), sono i più credibili eredi del Festivalbar che dal 2007 tanto ci manca, fra l’altro fino a 3 anni fa andavano in onda proprio su Italia Uno. Anche se si svolgono in una serata sola e non in una serie di tappe con gran finale all’Arena di Verona, rappresentano la musica italiana che si ascolta davvero, se si parla di grandi numeri (preveniamo il commento ‘Stamattina sono andato in ufficio accompagnato da Piero Ciampi’). Quindi non la nicchia di genere o da clubbettino, non il mainstream per nostalgici trash che non comprano un disco dai tempi di Tiziana Rivale, non mostri sacri storicizzati che non scrivono alcunché di decente da decenni. La serata di Rai Uno, in diretta dal Foro Italico (proprio lo stadio del tennis), presentata da Carlo Conti e Vanessa Incontrada, ha dimostrato con il suo 20,35% di share quello che la musica ‘pura’ senza il doping di comici e ospiti extra può al massimo produrre. Biagio Antonacci, Laura Pausini, Elisa, Emis Killa (non riusciamo a toglierci dalla testa Maracanà, fra l’altro anche sigla di SKY), i Modà, Emma, Alessandra Amoroso, Pino Daniele, eccetera: tutta gente che riempie palazzetti e in certi casi anche stadi. Siccome a Sanremo ogni risultato inferiore al 45% viene considerato una tragedia, è evidente che la musica in quanto tale ha nella televisione generalista di oggi limiti ben precisi. Perché il giovane che ascolta musica la può trovare su mille canali o sul web, senza sottoporsi alla lenta liturgia del tipo ‘Ecco a voi’, mentre il vecchio con il plaid tollera Emma o chiunque altro quando canta cover ma non quando canta canzoni semi-nuove. Poi Conti ha un ritmo e una misura straordinari, siamo da sempre suoi cultori e ci dispiace che il premio della conduzione di Sanremo, che meritava da almeno dieci anni, sia arrivato solo adesso con Renzi al potere. Come se fosse un indennizzo etnico, genere Marzullo con De Mita. Però mettendo in campo il meglio (e metà dei cosiddetti big di Sanremo commercialmente non vale un dito di uno qualunque dei presenti agli Awards) si fa il 20% o poco più in una serata televisiva senza grande concorrenza (cinque minuti di Ballarò farebbero diventare pessimista anche Donald Trump). Non auspichiamo quindi l’infornata di comici che non fanno ridere o di finti suicidi per raddoppiare lo share, ma proprio l’accettazione dei limiti di audience della musica in televisione. Proviamo a immaginare il pubblico tipo di Rai Uno, prima di distribuire patenti di genialità o incapacità.