Basket
L’unico idolo di Dražen Petrović
Stefano Olivari 26/03/2016
Aleksandar Petrović è da pochi giorni diventato allenatore della nazionale croata, che a luglio contenderà all’Italia di Messina e alla Grecia un posto a Rio nel torneo preolimpico di Torino. ‘Aco’ è una delle persone che più ci ha aiutato nello scrivere il libro su Dražen ed è stata forse l’unica fra chi lo ha conosciuto a non subirne il mito, pur amando profondamente suo fratello. La ragione è semplice: l’unico mito di Dražen è stato lui.
Signor Petrović, come è iniziato tutto? In quale modo la pallacanestro è entrata nella vostra famiglia?
Il merito è del mio professore di educazione fisica delle scuole medie, Ivica Slipcević. Grandissimo appassionato, faceva anche l’arbitro. Mi ha trasmesso l’amore per questo sport e di lì a poco sono entrato nel settore giovanile del Šibenka.
Quindi i vostri genitori, Biserka e Jole, non c’entrano…
Assolutamente no, non erano interessati né al basket né allo sport in generale. Come attività extrascolastica ci avevano anzi iscritto a una scuola di musica. Io avrei dovuto studiare clarinetto, Dražen chitarra e solfeggio. A un certo punto non mi presentai più, preferendo passare i pomeriggi a giocare a basket, ma lo scoprirono dopo quattro mesi. Dražen invece fu più diligente, ma abbandonò presto anche lui la strada della musica.
Da bambini quali erano i vostri idoli cestistici?
Della NBA nessuno aveva mai sentito nemmeno parlare, io mi appassionai alla squadra che nel 1970 vinse il campionato del mondo a Lubiana. Dražen iniziò a giocare seguendo me, spesso lo portavo ai miei allenamenti. Poi andando avanti diventai un grande fan di Kićanović, mentre Dražen non aveva idoli… a parte me!
È vero che Dražen bambino aveva problemi di salute?
Sì, alla schiena e alle anche. Poi risolse tutto con il nuoto e con esercizi che eseguiva ogni giorno. Si può dire, non solo in questo senso, che si sia costruito da solo.
Quindi quella di Dražen ragazzino senza particolare talento non è una leggenda…
Si capiva subito che aveva doti eccezionali, da adolescente gli mancava solo un po’ il tiro dalla lunga distanza, ma poi direi che è migliorato… Per il suo tipo di gioco, fatto di finte e penetrazioni, a livello giovanile il tiro non serviva. No, il talento c’era ed anche tanto. Ma la differenza l’ha fatta la sua applicazione.
Il soprannome di ‘Kamenko’, pietraio, davvero gli è stato dato?
Non è mai stato un suo soprannome, ma un modo scherzoso in cui lo chiamavano gli amici durante il gioco. Non è proprio mai esistito invece ‘Diavolo di Sebenico’, per lo meno in Jugoslavia. Alla fine l’unico vero soprannome è ‘Mozart’, merito del giornalista della Gazzetta dello Sport Enrico Campana. Non so come, gli capitò in mano un articolo di Campana e Mozart gli piacque subito. Noi più vicini a lui lo abbiamo invece sempre chiamato Mali, cioè ‘Piccolo’.
Quali scuole avete frequentato?
Entrambi Gimnasia Clasica, all’età in cui in America si frequenta la high school. Materie umanistiche, latino e greco, ma Dražen eccelleva soprattutto in matematica. Per i numeri ha sempre avuto una passione, così come per le statistiche. Sceglieva con moltissima cura quelli delle sue maglie, in base a ragionamenti tutti suoi.
Era superstizioso?
Sì. Aveva una sua routine di allenamento prepartita, come tanti. Ed era legato ai numeri. Ad esempio ai Nets scelse il 3, in onore del nostro numero civico in via Preradović a Sebenico e anche come messaggio all’intera NBA: nessuno avrebbe tirato da 3 come lui. A proposito della superstizione di Dražen, mi viene in mente spesso un episodio inquietante. Ai Giochi di Seul nel villaggio olimpico c’era una maga che leggeva il futuro agli atleti: un po’ per scherzo e un po’ no, Dražen insieme a Vranković e a Goran Ivanisević, che aveva solo diciassette anni, se lo fece leggere. Per Vranković e Ivanisević frasi generiche, ma quando fu il turno di Dražen la maga cambiò espressione e gli disse che avrebbe dovuto vivere ogni momento della sua vita come se fosse stato l’ultimo. Non dico che Dražen rimase spaventato, ma turbato sì. E pensò spesso a quella serata a Seul. Se possibile, il suo impegno nella pallacanestro diventò ancora più intenso e totale.
Nel 1976 la vostra vita cambia per sempre, lei va al Cibona mentre il dodicenne Dražen entra nel Šibenka… I vostri genitori erano contenti?
Diciamo che non ci hanno ostacolato nell’inseguire i nostri sogni… A casa nostra erano venuti Giergia da Zara e Skansi da Spalato, ma fin da subito fui convinto da Novosel: mi fece tanti complimenti, disse che ero il miglior giovane jugoslavo e che avrebbe lasciato la nazionale per creare un grande Cibona. Feci la scelta giusta, anche se subito mi ammalai: persi di fatto un anno per una febbre reumatica e un altro per la mononucleosi. Anche da guarito ebbi un calo fisico e Novosel mi cambiò di ruolo, da guardia a playmaker.
Alla fine degli anni Settanta seguì quindi la crescita di Dražen da Zagabria: chi fu decisivo nel salto di qualità?
Con tutto il rispetto per gli allenatori, prima di tutto lui stesso. Dražen si è costruito da solo, con un’applicazione che non avrei più visto in alcun altro. Certo un grande ascendente su di lui ebbe Slavnić, per il suo modo di stare in campo e per il coraggio di farlo esordire in prima squadra a quindici anni.
Il Baldekin era il campo più difficile della Jugoslavia? La storia di quel Šibenka si incrocia a quella di rimonte incredibili…
Era di sicuro un campo caldissimo, anche se a quell’epoca c’era in questo senso una bella concorrenza. A Zara, ad esempio, ma non solo. Al Baldekin avevi la sensazione che avessero venduto il doppio dei biglietti, rispetto alla capienza. E forse non era una sensazione.
Era lì a Sebenico per la gara tre della finale 1983?
In prima fila, insieme a due amici venuti con me da Zagabria. Partita incredibile, un clima di enorme tensione. Poi festeggiammo tutta la sera. Il mattino dopo, tornando a Zagabria, ascoltai alla radio la notizia della ripetizione della partita… non ci volevo credere, ma a quei tempi il Bosna era una squadra potente e soprattutto Sarajevo era una città a cui concedere tutto in vista delle Olimpiadi.
Perché Dražen decise di fare il servizio militare a diciannove anni al contrario di lei, ad esempio, che lo fece a ventisei?
Riteneva finita la sua ascesa con il Šibenka, dopo quel campionato vinto e poi cancellato. Desiderava voltare pagina e sapeva che tutti i grandi club jugoslavi lo volevano, oltretutto c’era anche qualche offerta dalla NCAA. Per lui comunque quello del militare non fu un anno buttato via: imparò a vivere lontano da casa, perse quei cinque chili di troppo che la cucina della mamma gli aveva dato, diventò più atleta e lavorò moltissimo sul tiro. A Pola poi non era da solo, ma c’erano anche Perasović e una buona squadra almeno per allenarsi. Così quello che si presentò ai Giochi del 1984 era un Dražen nuovo, ancora più forte dell’anno prima.
Si sarebbe tornati a parlare del fisico di Dražen all’inizio della carriera NBA.
Purtroppo in quell’occasione fece un grave errore, massacrandosi di pesi per tutta l’estate 1989, dopo l’oro europeo vinto a Zagabria. Si era messo in testa che per reggere fisicamente la NBA avrebbe dovuto guadagnare almeno diversi chili di muscoli, un’idea che poi si sarebbe rivelata sbagliata. Ma va detto che in Europa circolavano ancora convinzioni basate sui tempi in cui della NBA non si sapeva nulla. Una di questa riguardava proprio la muscolatura. Non si può giocare nella NBA quando si è magri come Dražen, dicevano alcuni presunti esperti. Forse per altri tipi di giocatore avrebbero avuto ragione. Invece il gioco di Dražen è sempre stato basato su tecnica, creatività, scelta di tempo. Devo dire che un certo punto, il primo anno a Portland, era convinto di dover mettere su ancora più muscoli: parlandomi al telefono, faceva sempre il confronto con il fisico di Drexler. Per fortuna si rese conto dello sbaglio e nell’estate del 1990 fece tutto un altro tipo di preparazione, tornando in pochi mesi agile come prima, ritrovando la velocità per uscire bene dai blocchi. È anche per questo che ai Nets ha poi fatto grandi cose.
Come è stato per voi essere prima giovani promesse e poi campioni in un paese comunista?
Quasi non ce ne siamo accorti, del comunismo. La passione per la pallacanestro era così grande che pensavamo solo a giocare, senza valutare quanto si guadagnava. E poi la Jugoslavia non era certo l’Unione Sovietica.
In casa Petrović ci si sentiva più croati o jugoslavi?
Nostra madre è croata, nostro padre di origine serba. Ma il punto è che per quasi tutti gli sportivi jugoslavi il nazionalismo non è mai stato un problema quasi fino alla fine della Jugoslavia stessa. Ed anche la maggioranza della popolazione la pensava così…. L’Europeo del 1989, vinto in casa a Zagabria, fu seguito con un entusiasmo mai visto prima nonostante in campo ci fossero serbi come Divac e Danilović.
Ecco, Divac. Parliamo di Once Brothers?
Parliamone, anche se non c’è molto da dire. La verità è che i rapporti fra Dražen e Vlade erano sempre stati buoni, fino a quell’episodio della bandiera al Mondiale del 1990. Da quel momento in poi Dražen è stato sotto una pressione incredibile, non solo a causa di Divac. Era intanto scoppiata la guerra, alcuni amici di Dražen stavano combattendo e Sebenico era sotto i bombardamenti. Come detto, noi siamo di famiglia mista, ma Dražen in quei mesi si sentì obbligato a prendere posizione. E la prese, rompendo amicizie di anni come quella con Divac. La sua famiglia e i suoi amici erano in pericolo di vita, cosa avrebbe dovuto fare? Fu molto lineare, da un giorno all’altro tagliò le comunicazioni con Divac e con altri.
In definitiva vi sentivate più croati o più jugoslavi?
Nel mondo in cui siamo cresciuti le due cose non erano in contraddizione. Ricordo con orgoglio il quintetto base del Mondiale 1970: tutto di croati, ma la nazionale rimaneva la Jugoslavia.
Come avete vissuto la guerra voi rimasti in Croazia? È vero che Dražen vi voleva portare in America con lui?
Vero, era preoccupatissimo per noi e non solo per noi, ma non volevamo scappare. Io fra l’altro avevo iniziato ad allenare il Cibona, in circostanze abbastanza difficoltose visto che facevamo base in Spagna, vicino a Cadice. Ma non me ne sarei andato in ogni caso.
Estratto dell’intervista esclusiva fatta ad Aleksandar Petrović, contenuta nel capitolo 40 del libro ‘Gli anni di Dražen Petrović – Pallacanestro e vita’, di Stefano Olivari. La versione cartacea, 250 pagine, è in vendita sul sito della Hoepli, su Amazon e fisicamente in tante librerie: la stessa Hoepli, la Libreria dello Sport, gran parte delle Feltrinelli e delle indipendenti. Prezzo dai 17 ai 20 euro, a seconda dei rivenditori. Disponibile anche a 6,99 euro in versione eBook per Kindle di Amazon, per iTunes di Apple (quindi iPad, iPhone, iPod Touch e Mac), Kobo di Mondadori e per tutti gli altri eReader attraverso la piattaforma di BookRepublic. Distributore in esclusiva di questo e degli altri libri di Indiscreto: Distribook srl.