Recensioni
Una squadra e l’invenzione del tennis italiano
Stefano Olivari 17/06/2022
Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli: dell’Italia che vinse la Coppa Davis nel 1976 e che poi arrivò altre tre volte in finale, l’ultima nel 1980 con Ocleppo al posto di Zugarelli, pensavamo di sapere tutto perché l’abbiamo adorata in diretta ed anche in differita, fra mille rievocazioni a volte commosse ed altre livorose. Ma da Una squadra, la serie-documentario di Domenico Procacci che abbiamo appena terminato di guardare su Sky, è stato lo stesso impossibile staccarsi.
Non per le rivelazioni, anche se per fortuna non tutti gli appassionati di tennis hanno più di 50 anni e quindi per molti si è trattato di qualcosa di nuovo, ma per il tipo di tennis e di Italia che i quattro tennisti azzurri ed altre persone, soprattutto Nicola Pietrangeli, sono stati capaci di raccontare senza nemmeno volerli raccontare, perché in fondo nelle sei puntate hanno parlato soprattutto di sé stessi. Quei giocatori scalarono tutti la classifica della neonata (1973) ATP: Panatta al numero 4 come migliore posizione, Barazzutti alla 7, Bertolucci alla 12 e Zugarelli alla 24. Ma non è certo per le vittorie individuali, nemmeno per il Roland Garros di Panatta, che entrarono nella cultura popolare italiana.
Ci entrarono per la Davis, che all’epoca si articolava su molte più partite e che sempre era occasione di polemiche ferocissime, e perché seppero trasformare uno sport di élite in uno sport di massa, non essendo nessuno di loro di estrazione alto-borghese, come ad esempio Pietrangeli: quello con l’infanzia più agiata forse era Bertolucci, figlio di un maestro di tennis, ma comunque niente a che vedere con il tennis dei gesti bianchi. Non erano certo i primi campioni del tennis italiano a venire dai ceti più bassi (Cucelli e Sirola, per dirne due, avevano avuto un’infanzia poverissima), ma furono forti nel momento sociale ed economico giusto, quello in cui i figli della piccola borghesia sognavano di migliorare le proprie condizioni invece di tirare a campare. Ed il tennis, pur nella sua versione popolare, aveva quell’aura di pulizia e di stile che in fondo non ha perso nemmeno oggi.
Poi Procacci ci ha messo molto del suo, con un abile montaggio delle interviste: lo stesso episodio, oggettivamente uguale, raccontato in quattro o più modi diversi, si trasforma da insignificante in straordinario. Buona la scelta di non seguire un ordine cronologico da compitino, non è un giallo e non ci sono colpevoli da scoprire, anche se ovviamente le storie principali, che si incrociano anche alle altre, sono due: la battaglia che Pietrangeli condusse praticamente da solo per portare la squadra a giocare la finale del 1976 nel Cile di Pinochet ed il modo in cui lo stesso Pietrangeli fu fatto fuori dai giocatori, ispirati dal presidente federale Galgani, che mal tolleravano il suo protagonismo, per fare capitano il consulente degli affari (disastrosi) di Panatta, Bitti Bergamo.
Una squadra è piaciuto molto anche a tiepidi appassionati di tennis, perché tutti hanno un modo divertente e un po’ cazzaro di rievocare il passato. A noi calorosi ha colpito in particolare Zugarelli, del quale abbiamo anche letto la biografia: ci era sempre sembrato un po’ vittimista, ma in video risulta di una simpatia travolgente ed alla fine è forse il più vero di tutti. Per trovare campioni simili abbiamo dovuto aspettare decenni, e la nostalgia non è soltanto per i tempi ma proprio per il tennis giocato con le racchette di legno, cioè quello che si è giocato fino all’inizio degli anni Ottanta: davvero un altro sport, molto più divertente e cerebrale. Sappiamo già che non vedremo Una squadra 2 e non soltanto perché fra 40 anni saremo morti. Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli non sono certo stati i primi tennisti italiani forti, ma il tennis italiano l’hanno inventato loro.
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