Malati di anni Ottanta, intervista a Enrico Vanzina

A tu per tu con il grande sceneggiatore e scrittore, autore del giallo 'Una giornata di nebbia a Milano' e forse il miglior osservatore dell'Italia dell'ultimo mezzo secolo...

16 Marzo 2021 di Simone Sacco

Inutile premettere in un articolo, già chilometrico di suo, chi sia Enrico Vanzina. In fondo Wikipedia l’hanno inventata da anni e proprio in questi giorni sta nuovamente chiedendo offerte ai suoi utenti. Magari consultatela per filmografia, produzioni, sceneggiature, romanzi, fiction, eccetera. Enrico, assieme a suo fratello Carlo prematuramente scomparso nell’estate del 2018 («Dopo essersi comunque gustato quel gol strepitoso di Dzeko, al volo, contro il Chelsea in Champions League», mi specifica lui), è un uomo che ha fatto tutto. Ultimamente si è messo pure a scrivere romanzi gialli ricchi di un lessico citazionista, mai pesante, coinvolgente nei dialoghi (la vecchia pellaccia dello screenwriter) e profondo nelle deduzioni. Eppure, per noi di Indiscreto, resterà sempre quel Vanzina che, rileggendo i vizi eterni dell’Italia, ci ha donato una vertigine di assoluto. Quelli in fondo eravamo noi – italiani ottimisti eccezionali veramente – e magari un giorno lo saremo ancora. Una volta usciti da ‘sta nebbia. Sigla!

Partiamo dall’attualità (l’intervista si è svolta il 10 marzo scorso, ndr): Juventus-Porto di ieri sera ti ha risvegliato antichi fantasmi?

Parli del fatto che anche la Roma, nel 2019, è uscita dalla Champions cedendo contro i Dragões?

Esattamente.

No, quello no. Nel senso che io di spettro ne ho soltanto uno: 30 maggio 1984, Roma-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni allo stadio Olimpico. Sopravvissuto a quella, penso ormai d’essere “vaccinato” a tutto. (ride amaro, ndr)

Hai mai pianto per una semplice partita di calcio?

Be’, dopo i rigori contro il Liverpool sono rimasto inebetito sugli spalti dell’Olimpico fino all’una di notte. A piangere come una fontana, certo. Poi ricordo il viaggio di ritorno da Torino, tutti stipati in una macchina, dopo Juventus-Roma del 10 maggio 1981: esatto, proprio quella “der gol de Turone” (annullato per sospetto fuorigioco, ndr). E anche lì non ti dico le lacrime versate tra amici…

Nel nostro Paese c’è questo luogo comune del tifoso giallorosso oltremodo frignone. Tu ci credi?

Frignoni noi romanisti? Ok, ma vorrei vedere come avrebbero reagito anche i tifosi delle altre squadre dopo certe cose che sono successe alla AS Roma: la vicenda Turone, la finale casalinga col Liverpool, il famigerato 2-3 col Lecce, eccetera. Il tifo contro, in ogni caso, non mi appartiene. Sai, dopo la partita della Juve, guardo lo smartphone e un mio caro amico – granata sfegatato – mi manda una foto raffigurante un passaporto della Comunità Europea. E sotto ci sta scritto: “Passa er Porto”. Ecco, quello è il calcio leggero che piace a me. Lo sfottò innocuo.

Mi hai citato la fatidica Roma-Lecce che impedì alla “Maggica” di vincere quello che, all’epoca, sarebbe stato il suo terzo scudetto. L’hai letta la recente autobiografia di Sebino Nela? Hulk è molto perentorio su quel match: “Sbagliammo noi. Avremmo dovuto vincere 4-0”, la sua tesi.

No, non l’ho ancora letta, ma la recupererò presto. In fondo Sebino è un amico: un fedelissimo dell’Olimpico quando ancora si poteva mettere piede in quello stadio. Roma-Lecce dell’aprile ’86? Fu una “partita strana”. E questo me lo raccontò Sven-Goran Eriksson (allenatore della Roma tra il 1984 e il 1987, ndr) dopo essere stato a colloquio con l’ingegner Dino Viola. Povero Sven. Non si dava pace dopo quella disfatta, ma Viola lo rincuorò fin dal giorno dopo: “Mister, non si preoccupi: guardi che ci sono altre ragioni…”. Di più non so visto che questo aneddoto mi è stato riferito per interposta persona.

Misteri del pallone.

Il calcio italiano è questa roba qua: alto e basso. Ora te ne racconto un’altra. Una volta, sempre Eriksson, andò dal suo connazionale Nils Liedholm a chiedergli lumi su cosa gli sarebbe toccato se avesse allenato in Italia. E il Barone, serafico come sempre, gli disse: “Sven, gli italiani sono pazzi per il calcio. Pensa che, quando giocavo nel Milan, la prima standing ovation San Siro me la riservò… per un passaggio sbagliato!”. “In che senso, Mister?”, domandò Eriksson. “Be’, vestivo quei colori da tempo e non ne avevo ancora sbagliato uno di passaggio. Quell’applauso scrosciante lo fecero per consolarmi e farmi sentire umano”.

Veniamo a te: chi è Enrico Vanzina ormai vicino (26 marzo prossimo) alla soglia dei 72 anni?

Aspetta, in realtà io di anni ne avrei 42! (sorride, ndr). Quindi mi ritengo un quarantaduenne con ancora tanta voglia di divertirsi e magari far riflettere il prossimo con ciò che scrivo. Un giovane ragazzo “pop”, coi capelli ancora lunghi e forse un pochino spaventato dalle mille cose che ha fatto in vita sua. Uno che, tra un successo e l’altro, ha preso delle facciate che non ti dico. Eppure mi hanno fatto bene anche quelle. Perché ammettere i propri errori è sempre una cosa buona.

Ok, ma esattamente chi sei a questo punto della tua vita? Un regista, un romanziere, uno sceneggiatore?

Sono uno che ha ripreso malauguratamente a fumare dopo la scomparsa di mio fratello Carlo. (sospira) E che ama tantissimo il suo lavoro. Qualunque cosa sia questo benedetto lavoro. Ti va di chiamarmi regista dopo che – con ‘Lockdown all’Italiana’ – ho diretto la mia prima pellicola in assoluto? Fai pure, ma non credo che quella qualità mi sia caduta dall’alto.

Per uno che già nel 1976 firmava la sceneggiatura di ‘Febbre di Cavallo’ (la cui regia era di tuo padre Steno) direi proprio di no…

Mettiamola così. All’interno del nostro sodalizio, Carlo è sempre stato il regista e di questo gli va dato atto. Io facevo il produttore e lo sceneggiatore. E stavo sul set lo stesso numero di ore, tante, che ci passava lui. Il montaggio, poi, l’abbiamo sempre fatto a due mani. Nella mia testa, insomma, è cambiato ben poco.

Che ne è invece del Vanzina sceneggiatore ora che ti diletti, con una certa continuità, a sfornare romanzi?

Sta sempre lì. Se tu guardassi in questo momento il desktop del mio computer, ci troveresti una sorta di disordine organizzato: una roba tipo 150 icone legate ad altrettanti work in progress. Alcuni vedranno la luce, altri finiranno nel cestino. Però, se scrivo un romanzo, non lo faccio per ricavarci un film e viceversa. Le due cose finiranno inevitabilmente per contaminarsi, ok, pur continuando a vivere di vita propria.

Mi spieghi cosa simboleggia la nebbia nel tuo nuovo libro ‘Una giornata di nebbia’ a Milano?

Tu che idea ti sei fatto?

Forse è una metafora per sottintendere che la pandemia ci ha risucchiati tutti quanti in un qualcosa di sospeso e invalicabile…

Questa è una spiegazione meravigliosa (sorride, ndr). Nel senso che è sempre sublime quando un critico dà delle interpretazioni ad un qualcosa a cui l’autore non aveva minimamente pensato. Dunque la tua resta una metafora giustissima.

Però mica ci ho preso.

Be’, nel mio caso sarò più terra a terra: dopo aver scritto un romanzo ambientato a Roma (‘La sera a Roma’, 2018), volevo fare altrettanto con Milano, una città dove notoriamente la nebbia è scomparsa da decenni. Eppure resta una circostanza straordinaria dove ti ci puoi immergere e, dopo un momento di sospensione, uscirne uguale a prima. O morto, come capita alla vittima del mio libro (il vecchio intellettuale Giovanni Restelli, ndr). Ecco, per il mio romanzo “grigio Armani”, volevo esattamente un’atmosfera del genere: un luogo che, di suo, non rivela un cazzo. Una metropoli che ama nascondere e nascondersi. Una Milano bipolare: patria delle public relations, ma abitata da milioni di persone riservate. Una città che Montale amava descrivere come “un enorme conglomerato di eremiti”.

Perché Milano, da tempo immemore, viene raccontata meglio da chi non vi è nato?

Io Milano penso di conoscerla bene perché in definitiva i fratelli Vanzina ci hanno girato qualcosa come 18 film, da queste parti. In caso contrario non mi sarei mai permesso di scrivere un libro del genere, ovvero un giallo meneghino. E comunque non è un’anomalia che riguarda solo questa metropoli. I migliori sguardi su Roma, Moravia a parte, li hanno elargiti Carlo Emilio Gadda (un milanese!) e il pescarese Ennio Flaiano. E poi Fellini, certo. Pasolini. L’occhio distante ha sempre questo pregio di rivelare meglio.

Il protagonista del tuo romanzo, Luca Restelli, è un quasi quarantenne che di mestiere fa il giornalista in un quotidiano ormai decaduto. Cos’ha il giornalismo odierno che non va? Mancanza di talento nelle nuove leve o cronisti troppo attaccati allo stipendio e ai diktat dell’editore?

Quante ore abbiamo? (ride) Vabbè dai, proverò a sintetizzare visto che faccio questo mestiere anch’io da tanti anni (prima per il Corriere della Sera e attualmente per Il Messaggero, ndr). I giornalisti di oggi, per me, sono troppo vanitosi.

Eh.

Nel senso che amano mostrarsi in televisione, parlano troppo e scrivono poco. Questo perché, a causa della Rete, sono sempre clamorosamente in ritardo sulle news. Eppure, nonostante ciò, continuano a mancare gli approfondimenti di qualità. Le notizie vere resteranno sempre il pane, ma ci vogliono punti di vista più elaborati al posto di quest’incessante chiacchiericcio tutto uguale. Il futuro del giornalismo? Non sarà la morte di esso, ma una informazione fatta sempre meglio.

Un altro personaggio emblematico di ‘Una giornata di nebbia a Milano’ è Giorgio Finnekens, omaggio letterario sia a James Joyce che all’indimenticabile Andrea G. Pinketts. Come ti è scaturito?

Di Pinketts ho letto solo due libri ma, più che consigliarti ‘Lazzaro, vieni fuori’, preferisco raccontarti l’enorme fortuna che ho avuto nel conoscerlo di persona. Andrea era un romanziere coltissimo, che ci metteva la faccia, ma non se la tirava mai. Se lui è dentro il mio libro è perché volevo fare un’ode alla Milano della memoria.

Un’ode fuori tempo massimo?

Sì, visto che la città si è votata da anni al contemporaneo dei grattacieli e del Bosco Verticale. Però una volta un architetto famoso mi disse che il “contemporaneo” è quello stile che va fuori moda dopo appena un paio d’anni. Pinketts, Jannacci, Beppe Viola, Umberto Simonetta, Bianciardi, invece, hai voglia a scordarteli… 

A questo punto mettiamoci dentro anche ‘Sotto il Vestito Niente’. Film che nel 1985 raccontò il torbido sottobosco della Milano da bere…

Quello fu un thriller anomalo e ante litteram per l’Italia visto che Carlo lo girò con uno stile americano alla Brian De Palma. La pellicola, in un primo momento, doveva farla Michelangelo Antonioni che però, di suo, non era granché interessato. Così entrammo in azione noi e, pur di far tutto di testa nostra, non leggemmo neanche il romanzo originale (scritto da Marco Parma, pseudonimo del giornalista Paolo Pietroni, nel 1983, ndr). Si tratta tuttora di un buon film. Importante da un punto di vista storico perché quel momento è definitivamente passato e quel tipo di moda altisonante non esiste davvero più. ‘Sotto il Vestito Niente’ cristallizza in qualche modo un periodo importante per Milano.

Una volta Ennio Flaiano ti rivelò che “scrivere serve esclusivamente per sconfiggere la morte”. Funziona così anche col Cinema?

(Ridacchia, ndr). Intendi forse sottintendere che…

Che i Vanzina ormai sono diventati immortali.

Tale aggettivo preferirei non usarlo, dai… (sorride) Diciamo che siamo nella memoria collettiva da un pezzo, quello sì. Però consegnare un libro alle stampe resta una cosa ben diversa. Ok, un film può avere una vita lunghissima e passare in prima serata anche venti/trent’anni dopo che l’hai realizzato. A noi, fortunatamente, è successo. I libri, invece, spuntano fuori quando meno te lo aspetti. Se nel 2060 in un appartamento meneghino venisse ritrovata (e letta) una copia di ‘Una giornata di nebbia a Milano’, ecco, lì si che avrei sconfitto la morte! In un modo ancor più perentorio rispetto ad un blockbuster cinematografico…

A proposito di immortalità: bellissima questa cosa che tu parli tuttora con tuo fratello Carlo a quasi tre anni dalla sua scomparsa…

È così. Lui è sempre accanto a me. Anche in questo momento.

Mi rendo conto che sia un’emozione privata, ma anche al cinema ha sempre funzionato bene la figura del protagonista che parla con qualcun altro che, in teoria, non dovrebbe esserci. Mi viene in mente Tom Hanks in ‘Cast Away’. O Steve Evets ne ‘Il mio amico Eric’ di Ken Loach…

Be’, il libro che dedicai a Carlo (‘Mio fratello Carlo’ del 2019. Ndr) termina proprio con me che passaggio in un parco pensando a ‘Ghost’. Fossimo nati in America, magari quel film con Demi Moore e Patrick Swayze l’avremmo fatto noi. Mio fratello, fin dal giorno in cui l’ha visto, l’ha sempre considerato un capolavoro.

Un film sulla fatidica Roma-Liverpool del 1984 non ti è mai venuto voglia di scriverlo? Solo per il gusto di cambiargli il finale che tutti conosciamo. Un po’ come ha fatto Quentin Tarantino in ‘C’era una volta a… Hollywood’.

Anche qui devo tornare a citarti Carlo. Uno che preferiva il cinema alla vita reale perché, nel primo, puoi sempre piazzarci un lieto fine. Nella seconda, insomma. Film sul calcio ne ho scritti tanti (‘Eccezzziunale… veramente’, ‘Al bar dello sport’, ‘Tifosi’, ndr) e una volta al buon Mattioli – la pellicola era ‘Sapore di te’ – ho fatto rivivere quella dannata lotteria dei rigori. Con Maurizio che fissa il vuoto e s’immagina Graziani che va sul dischetto. E stavolta Ciccio segna… 

È difficile fare il film definitivo sul calcio?

Forse sì. Carlo, Marco Risi ed io, ad esempio, ci provammo tantissimi anni fa: sarà stato il 1975 visto che Beppe Savoldi giocava nel Napoli. In fase di sceneggiatura ci immaginammo questa storia spesa nell’arco di un solo weekend. I personaggi erano tutti tifosi del Napoli che si spostavano a Torino per affrontare una trasferta decisiva contro la Juventus. Un film di attese e speranze disilluse. Un po’ alla Robert Altman, se vuoi; e mentre ti faccio il suo nome mi pulisco anche la bocca per un paragone del genere. Morale della favola? Quel progetto non si fece mai. È rimasto sepolto in un cassetto.

In compenso hai piazzato quell’epocale battuta su Toninho Cerezo in una scena-cult di ‘Vacanze di Natale’ del 1983…

E Cerezo non ha mai smesso di ridere perché ancora oggi, ad ogni singolo 31 dicembre, riceve mail e messaggini da Roma con un solo, semplice messaggio: “A’ Tonì, ma che combini a Capodanno?”.

E lui magari, da bravo atleta, risponde pure che va a letto presto.

Probabile. A suo modo quella è diventata una scena romantica perché nel 2021, ai tempi dei social anche al cesso, dei calciatori si sa sempre tutto. 365 giorni all’anno.

Ultima domanda, Enrico: noi italiani torneremo mai a ridere come in quegli anni Ottanta?

Guarda, l’anno scorso ho scritto la sceneggiatura per ‘Sotto il sole di Riccione’, un film che ha avuto un successo strepitoso su Netflix. E in quel team produttivo – dal regista a Tommaso Paradiso che si è occupato delle musiche – erano tutti dei veri malati di anni Ottanta. Quindi la risposta, per me, è sì. Quella leggerezza si può ancora ricreare in una pellicola contemporanea.

E fuori dal set?

Eh, lì dovremmo tutti fare come quello scrittore francese. Che una volta disse: “Spero che il mondo resti un posto ridicolo”. Perché se è ridicolo allora vuol dire che funziona…

       

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