Un placcaggio come si deve
19 Dicembre 2006
di Roberto Gotta
Di difesa, qui, si è finora parlato poco, ed in negativo, di riflesso all’attacco. Il che è oltretutto contrario alle stesse inclinazioni di chi scrive, perché se dovessimo fondare da zero un roster preferiremmo sempre un buon difensore ad un buon attaccante, e come a tutti i fanatici, anche a noi esalta vedere un reparto difensivo che non lascia respirare gli attacchi. Si è parlato, solo la scorsa settimana, dell’incapacità degli Indianapolis Colts di risultare efficaci contro le corse, ed allora è il caso di tornare sull’argomento, approfittando anche di quello che ha offerto il Monday Night Football di lunedì 18, con la partita tra Colts e Bengals. Chi leggerà queste note dopo la differita di Sky con il commento in italiano della coppia Leopizzi-Nori saprà già tutto, perché certamente l’argomento sarà stato affrontato con competenza in trasmissione, qui semplicemente approfondiamo alcuni aspetti della questione utilizzando appunto quel che si è visto in partita. Le considerazioni da fare sulla difesa in generale e sul gioco di corsa in particolare sono peraltro così tante che ci vorrebbe l’intero spazio sul server, ma limitiamoci alle informazioni di base. A partire dalla tecnica del placcaggio, che è stata messa sotto accusa a proposito dei Colts. Ora, per come la insegnano ai principianti, è una tecnica che raramente può essere applicata in partita. Si parte dalla maniera di correre per avvicinarsi al portatore di palla, ovvero spostandosi lateralmente e non girandosi di lato verso una delle linee laterali – altrimenti cambiare direzione è arduo e porta via tempo – e tenendo le spalle sempre parallele alla linea di scrimmage, proprio per evitare di trovarsi tagliati fuori da una finta. Una volta arrivati nei pressi del portatore di palla, un piede un po’ più avanti, giù sulle gambe, spalla destra propria contro coscia destra avversaria (o sinistra contro sinistra), braccia che avvolgono le gambe e mani che si chiudono dietro alle ginocchia del portatore e ‘tirano’ in qua per piegarle (secondo il movimento naturale di chi pieghi una gamba, sia chiaro); in più, se possibile, casco all’altezza della palla, per eventualmente farla sfuggire alla presa, e spinta delle proprie gambe che se abbinata alla ‘tenaglia’ sul retro delle ginocchia causa automaticamente la caduta dell’avversario, e all’indietro, senza guadagnare yards. Ora, in partita succede rarissimamente che la tecnica venga rispettata: troppa velocità, troppa irruenza, troppa difficoltà per trovare l’angolo giusto prima che il portatore di palla sia già fuggito, senza dimenticare poi che i running back possono avere cosce di granito che non sono facilissimamente avvolgibili e – i migliori – non stanno certo lì a farsi placcare ma ‘attaccano’ a loro volta, abbassando il casco per offrire meno superficie placcabile o tendendo il braccio libero per tenere lontano il difensore. Però di base è così che si fa, e si noterà che viene sconsigliato l’uso del casco direttamente sull’avversario, che può portare a pericolosissime conseguenze oltre a costituire una violazione regolamentare ed un impedimento alla corretta tecnica. Bene, quando i Colts in allenamento prima della partita contro i Jaguars hanno lavorato sui fondamentali – con esiti, si ricorderà, risibili – l’attenzione è stata incentrata sulla ‘chiusura’ delle braccia, insomma sul non accontentarsi di arrivare sull’avversario e cingerlo con un braccio, ma terminare il movimento e fermarne l’impeto. Senza dimenticare un altro particolare cruciale: se stai alto sulle gambe, e il tuo avversario no, quasi sempre perdi il confronto, perché chi sta basso può spingere meglio e trascinarti, così come se commetti l’errore opposto, buttarti in tuffo senza avere un appoggio sul terreno. Oddio, in questa maniera può capitare che si faccia incespicare il running back prendendolo per la caviglia (si parla di shoestring tackle, ovvero placcaggio per i lacci delle scarpe), ad esempio nei disperati tentativi in ‘rimonta’ da dietro, ma sono più i casi, visibilissimi in Tv, in cui tale manovra non ha successo. Un esempio del primo caso, placcaggio troppo ‘alto’, è stato lunedì nel secondo quarto del Monday Night, su un secondo tentativo e sei yards da guadagnare dalle 40 di Indianapolis: Rudy Johnson, l’eccellente RB dei Bengals, correndo verso destra ha conquistato 21 yards, almeno 19 delle quali dopo un fallito tentativo di placcaggio del linebacker dei Colts Cato June il quale, chi può osservi i replay e magari vada al rallentatore, ha letto perfettamente lo svolgimento dell’azione (era dalla parte opposta) ed è arrivato abbastanza bene su Johnson ma con un attimo di ritardo, per cui pur impostandosi discretamente, al momento del contatto era alto, troppo alto, e senza poter fare efficace leva sulle gambe è riuscito solo a tenere Johnson per qualche istante prima di essere trascinato via, mentre l’aiuto del defensive back Dexter Reid, quando June era ancora ‘attaccato’ a Johnson, si è risolto in un inutile tuffo all’altezza della cintola, che il RB dei Bengals ha a malapena avvertito. Johnson è poi stato fermato dal defensive back Matt Giordano che ad un passo dalla linea laterale ha semplicemente gettato il proprio corpo sulle gambe dell’avversario, usando – appunto – la spalla e non certo il casco. Tre azioni più tardi peraltro June (alla fine, il Colt che ha avuto più placcaggi, nove da solo e quattro ‘condivisi’) ha fermato Johnson in altra maniera, non ortodossa ma efficace (del resto, ripetiamo, il placcaggio perfetto è rarissimo): ancora una volta aveva letto benissimo lo svolgimento dell’azione, ed essendo necessariamente arrivato sull’avversario quando questi aveva già deviato in allontamento da lui non ha potuto fare altro che saltargli in groppa, ed ha fatto bene. Come si nota, le componenti che portano ad un placcaggio ben fatto sono tante, e nemmeno abbiamo sfiorato la parte tattica, che aggiunge ulteriori elementi variabili. Anche se eventuali allenatori in lettura ci inseguiranno con una clava per la semplificazione estrema, non è infatti detto che a placcare un running back (per un ricevitore, specialmente se di schiena, il discorso è completamente diverso) debba essere per forza un uomo della linea di difesa: se avviene, tanto di guadagnato, ma a seconda delle doti di ognuno di loro, e dunque complessive della defensive line, può bastare che impegnino i loro avversari della linea di attacco o intasino i ‘buchi’, e starà poi ai linebacker o se proprio va male ai defensive back completare l’opera. Nel secondo caso è però probabile che il portatore di palla abbia già guadagnato qualcosa, ed è proprio nel confronto in campo aperto che la tecnica corretta di placcaggio viene messa alla prova: un tailback medio della NFL ha una velocità che non viene efficacemente resa dalle immagini televisive, ma che percepita a bordo campo fa impressione (oltre che capire la differenza tra college e pro: fanno le stesse cose, ma a velocità molto superiore), e per placcarlo in maniera corretta ed efficace può non bastare un uomo, specialmente se questi deve anche preoccuparsi di finte o cambi di direzione, e vedrete infatti che spesso il portatore di palla viene steso da un secondo uomo dopo che magari il primo gli ha fatto perdere equilibrio o velocità. Ecco, speriamo di non avere tediato, ma l’argomento meritava, e chi avrà avuto la pazienza di arrivare fino in fondo provi magari a guardare con un occhio diverso i placcaggi su un running back e le angolazioni di attacco da parte dei difensori.
NFL NETWORK – Pochi giorni prima di morire, Lamar Hunt, il petroliere dell’Arkansas scomparso il 13 dicembre scorso e ricordato anche sulla Settimana Sportiva per le sue idee pionieristiche nel tennis, ma celebre anche per essere nella Hall of Fame di ben tre sport diversi (appunto tennis, calcio e football), ha fatto uno di quei gesti che siamo abituati ad associare al comportamento dei – usiamo un termine generico e un po’ cialtrone – ‘ricchi’: non potendo seguire dal suo letto
Roberto Gotta
chacmool@iol.it
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