Un italiano di nome Kobe, sognando California (ma anche Reggio Emilia)

15 Ottobre 2015 di Indiscreto

La ventesima stagione di Kobe Bryant nella NBA e nei Lakers sarà anche l’ultima, la squadra sembra meno peggio del previsto ma di sicuro non è da titolo e a Ovest sarebbe già un’impresa agganciare i playoff, con gente comunque interessante fra Julius Randle, De Angelo Russell, Lou Williams e la grandissima attenzione per Roy Hibbert oltre che ovviamente per il ritorno di Artest. Il sogno è sempre quello di vedergli chiudere la carriera in quell’Italia in cui ha vissuto sette anni, quelli forse più importanti nella formazione del carattere (dai sei ai tredici), magari portando lo scudetto a Reggio Emilia. Sogno a basso tasso di concretezza, ma inevitabile da fare dopo la lettura di Un italiano di nome Kobe – Il nostro amico Bryant: la storia mai raccontata, il libro scritto da Andrea Barocci sul passato del campione nel nostro paese.

Tutto parte nel 1984, quando Joe Bryant smette di fare il talento incompreso della NBA e dopo un anno di inattività nella sua (nato lì, college a La Salle) Philadelphia accetta le offerte di Rieti, decaduta dopo i fasti del recente passato (Brunamonti, Sojourner, eccetera) ma società seria. Bryant padre accetta questa avventura e la vuole vivere con tutta la famiglia: la moglie Pam, donna dalla grande personalità e personaggio di culto in metà dei palazzetti italiani, il piccolo Kobe e le sorelle maggiori Sharia e Shaya. Nico Messina non era esattamente il tipo di allenatore fatto per intendersi con una stella che pensava soltanto all’attacco, dove per attacco si intendeva l’uno contro cinque con tiri costruiti in gran parte dal palleggio e immarcabili (Jellybean era 2,06), mentre un po’ meglio andò la stagione seguente con un Giancarlo Asteo già segnato dal tumore che di lì a poco lo avrebbe ucciso: il dispiacere per essere considerato soltanto in A2 fu mitigato dalla vita familiare a Rieti nei suoi due anni in quella squadra (prima American Eagle e poi Ippodromi d’Italia), da idolo assoluto, con i bambini che frequentavano la scuola italiana nonostante le società gli volesse fornire un autista per gli avanti-indietro con la scuola americana di Roma.

Le straordinarie performance offensive gli crearono una fama da giocatore da piccole realtà, al punto che dopo Rieti ebbe offerte soltanto dalla A2: dopo un anno alla Viola Reggio Calabria e due a Pistoia (Maltinti e Kleenex), sempre con famiglia al seguito, decise di averne abbastanza. Lui che era stato quattordicesima scelta assoluta al draft del 1975 e che aveva giocato una finale NBA con Doctor J non poteva mendicare una chiamata in A2, dopo cinque anni da protagonista. Ma quando già pensava di avere chiuso ecco le Cantine Riunite Reggio Emilia, finalmente due stagioni in A1 (la seconda targata Sidis e chiusa con la retrocessione) prima di lasciare davvero l’Italia, a 37 anni.

Il libro parla di Joe, attualmente allenatore in Cina, ma soprattutto del piccolo Kobe e della sua fusione totale con la vita italiana, dalle abitudini alimentari al tifo calcistico (Milan). Sempre con un chiodo fisso, a detta di tutti i testimoni dell’epoca: la NBA ma da stella assoluta, non da talento parzialmente inespresso come il padre. È proprio nel periodo italiano che la personalità di Kobe si forma: il suo disprezzo per il basket da esibizione e per i bravi perdenti (Barocci non lo scrive esplicitamente, ma pur nell’ammirazione filiale è chiaro che Kobe inserisce suo padre in questo girone) ha radici solidissime, che l’hanno aiutato su un campo e un po’ meno nei rapporti da adulto con i genitori. Ma il bambino Kobe segue il padre in ogni dove e gli intervalli delle partite di Joe sono segnati dalle prodezze del futuro Black Mamba. Il libro è fatto di tante microstorie, ma Barocci ha la sensibilità per non fare discorsi del genere “A 12 anni stoppava Kobe e adesso è in cassa integrazione”. Il comune denominatore delle testimonianze non è l’esaltazione delle prodezze in campo di Kobe, ma il ricordo del fuoco che aveva dentro e della convinzione assoluta che sarebbe diventato un fuoriclasse. Convinzione che ha prodotto tanti spostati ma anche, va detto, i pochi autentici fuoriclasse.

Dopo il ritorno in America le puntate italiane di Kobe sono state rare ma non rarissime, alcune anche virtuali (l’interessamento di Sabatini per averlo alla Virtus Bologna, con pseudo-trattativa aperta su Facebook e continuata con una lettera a Obama degna del presidente della Longobarda), con chiari segnali di affetto per Reggio Emilia. È chiaro che la sua infanzia è stata diversa da quella di tutte le stelle dello sport americano. Intanto è vissuto in una famiglia unita, con un padre presente, poi non è mai stato in condizione di frequentare cattive compagnie, inoltre il viaggiare già da piccolo gli ha di sicuro aperto la mente anche se pur da kobiani osservanti non riusciamo a ricordare sue frasi memorabili oltre il recinto della pallacanestro. La sua NBA da piccolo, grazie alle telecronache di Dan Peterson e alle videocassette spedite dai nonni, è stata simile alla nostra e da lì si capisce come l’ammirazione per Michael Jordan sia rapidamente diventata ossessione-mitizzazione. Dei tanti presunti eredi di MJ difficile dire chi sia stato il migliore visto che la lotta è ristretta a pochi fuoriclasse, ma di certo Kobe è stato il più jordaniano dentro. Libro che scalda il cuore a chi ha vissuto il basket degli anni Ottanta e a chi conosce Bryant oggi. Sperando di vederlo a Reggio Emilia, per una chiusura romantica.

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