Basket
Un anno a Kentucky
Stefano Olivari 03/04/2012
di Stefano Olivari
Quando nel marzo 2005 leggemmo la notizia della morte di Nicola Calipari ci vergognammo di ‘pensare’ il suo cognome con l’accento sulla seconda ‘a’, come quello di John Calipari. Ma purtroppo siamo fatti così, il basket ce lo sognamo (oltre che guardarlo) anche di notte. L’allenatore di Kentucky non è più un perdente di successo, ora che ha vinto il titolo NCAA dopo averlo annusato con Massachusetts e sfiorato con Memphis e la stessa Kentucky (unico allenatore, insieme al Rick Pitino incrociato in semifinale, ad avere portato tre diverse squadre alla Final Four). E la vittoria della favorita in una stagione con poche sorprese offre il pretesto per qualche considerazione su un basket che amiamo e seguiamo più per quello che è stato che per quello che è. Sarà anche che la maggior parte di quello che è stato l’abbiamo conosciuta attraverso libri e giornali e che solo dall’anno di grande grazia 1982 (vittoria della North Carolina di Dean Smith, con uno dei vari ‘the shot’ della carriera di Michael Jordan nella finale con la Georgetown di Pat Ewing) possiamo fare del bar su cose che vediamo almeno in televisione.
1) Il gioco a livello di college è sempre più simile a quello NBA, con scelte veloci in alternativa ad isolamenti, al punto che per molte squadre (Kentucky è una di queste) giocano con un limite di 35 secondi ad azione con le stesse scelte che farebbero con il limite a 24. In difesa sempre meno zona, una scelta su cui bisogna lavorare nel tempo, in favore di più semplici e motivanti difese individuali. Non è certo una tendenza nata quest’anno, però mano a mano che i ‘vecchi’ coach passano a miglior vita la situazione peggiora. La dribble drive motion offense, uno degli attacchi che più caratterizza il basket di Calipari (che per la verità lo lanciò a Memphis), altro non è che una guardia che batte dal palleggio il suo marcatore e poi decide in base alla reazione della difesa se andare a canestro o riaprire (nel manuale la partenza base prevede almeno tre ‘fuori’). Pochi tagli, pochi blocchi, molta creatività che potremmo chiamare anche improvvisazione.
2) Un luogo comune, fondato come quasi tutti i luoghi comuni, vuole che oggi i coach siano più reclutatori che allenatori. E’ vero per quasi tutti, soprattutto in questa era in cui i freshman di talento (quelli da ‘one and done’) sono decisivi, quindi la vittoria del re dei reclutatori è solo una conferma. Dopo un solo anno saluteranno la compagnia la stella Anthony Davis, Michael Kidd-Gilchrist e Marquis Teague (fratello del Jeff degli Hawks), insieme ai sophomore (rimasti solo perché c’era aria di lockout nella NBA) Jones e Lamb.
3) Al netto del razzismo, il marketing NBA gradirebbe l’emergere di campioni bianchi ed è per questo che l’anno di Kevin Love vale come cento milioni investiti in pubblicità. Da questa stagione di college è uscito poco, anche se in sede di premi e di All American la pelle fa guadagnare qualche punto. Nel primo quintetto Doug McDermott, classico figlio di allenatore e ala piccola ‘di una volta’, con tiro e senso del rimbalzo, ma non al livello degli altri quattro. Ecco, che nel primo quintetto ci sia lui e non l’ex compagno di high school Harrison Barnes (stagione sotto le attese a North Carolina, ma comunque un fenomeno) fa pensare. Insomma, come in Brasile: basket ai neri, volley ai bianchi.
4) Il basket professionistico ha più mobilità sociale di quello sulla carta (perché non pagati, almeno ufficialmente, sono solo i giocatori) dilettantistico. Se ai Thunder bastano due campioni e qualche scelta giusta per diventare in due stagioni una squadra da titolo pur partendo da un mercato depresso, nemmeno due finali NCAA consecutive hanno dato a Butler la stessa attrattiva di Kentucky, North Carolina, Kansas, Duke, eccetera. Non è un caso che Calipari, ammesso che rimanga (potrebbe anche tornare nella NBA, dove è già stato con Nets e Sixers), abbia già in mano secondo Andy Katz di Espn.com (i suoi articoli sono uno dei pochi motivi validi per alzarsi alle sette del mattino), due fra i migliori diciottenni dell nazione: il centro Nerlens Noel e l’ala Shabazz Muhammad.
Twitter @StefanoOlivari



