Tutto a Ramenko

31 Gennaio 2008 di Stefano Olivari

Nella scorsa puntata non siamo riusciti a nascondere la tristezza per il modo in cui il sequel dell’Allenatore nel Pallone è stato realizzato, nonostante potesse contare in anticipo su di un pubblico ‘sicuro’, fra quarantenni nostalgici e quindicenni che hanno stravisto l’originale in televisione. Ma avevamo promesso di riparlare della trama e quindi non ci sottraiamo al racconto di un film che comunque sconsigliamo di andare a vedere. Siamo quindi nel 2007, con la Longobarda nelle mani di Willy, figlio del vecchio presidente Borlotti (interpretato da Andrea Baccan, il comico preferito da Christian Vieri, mentre Borlotti senior, in carrozzella, è ovviamente Camillo Milli) in società con Ramenko, pseudomafioso russo. Visti i fallimenti di squadre di serie A (fra cui la Juliana) viene promossa d’ufficio la Longobarda e da qui parte la storia.

Banfi-Canà sta gestendo un’azienda agricola in Puglia insieme alla moglie (Guliana Calandra, come negli anni Ottanta) e alla figlia Michelina (stessa attrice dell’originale) che nel sequel non è sposata con Aristoteles, come l’originale avrebbe potuto far ipotizzare, ma con Fedele, interpretato da un Biagio Izzo strepitoso ed in definitiva unica presenza vitale del film: la coppia ha un figlio, Oronzino, appassionato di calcio e mago del computer (pretesto per un marchettone di Alice). Durante una trasmissione tivù Canà svela i retroscena della storica stagione che portò alla salvezza ma anche al suo esonero, quindi anche la proposta indecente del vecchio Borlotti, e la cosa rovina (secondo la fragile sceneggiatura, colpa fra gli altri anche dello stesso Banfi) l’immagine della Longobarda al punto che bisogna scegliere proprio Canà come nuovo allenatore per dare l’impressione di avere cambiato sistemi.

Il racconto calcistico è pesante, con qualche scontata ironia sullo sport che è diventato business e sui troppi stranieri. Fra questi il giapponese Kiku, incapace calcisticamente ma utile per dare un’immagine internazionale ad una squadra di provincia. Le gag sulle incomprensioni fra Banfi e Kiku sono penose, così come le spiegazioni del modulo a farfalla al posto della vecchia bizona. In stile commedia all’italiana trash poi le situazioni familiari: con Fedele che tradisce Michelina con la domestica Myra e Canà che fa da paciere. Le parti con Biagio Izzo protagonista sono comunque le migliori: fra queste il viaggio a Monaco da un amico di Fedele, l’inevitabile cameriere italiano con la postura ed il giubbetto di pelle da Franco Causio, che promette un contatto nientemeno che con Luca Toni. Che compare veramente, ma per una serie di equivoci invece di firmare per la Longobarda affitta a Canà la sua casa sul Garda. Appare anche un Andrea Roncato sottotono, sempre procuratore (Bergonzoni) ma non più in società con Giginho, che consiglia l’acquisto di Caninho: giovane brasiliano, forse figlio di Canà per la storia di una notte con una ballerina brasiliana, Estella.

Vorrebbero essere satiriche le parti sulla giornalista sportiva (una Anna Falchi sottoutilizzata) che fa lo scoop sulla presunta paternità di Canà, ma anche qui nonostante l’abbondanza di spunti la risata (poi al cinema c’è chi ride appena sente certe parole o certi doppi sensi, ma è un suo problema) non decolla. Ennesimi problemi familiari, che si risolvono grazie alla madre di Caninho che scagiona Canà, e solito schema in campionato con inizio disastroso e recupero nel finale fino alla salvezza ed al festeggiamento da parte dei due gemelli-tifosi: non gli originali, ma quelli lanciati da Chiambretti in Markette. Il tutto in mezzo al cialtronismo di Borlotti junior e Ramenko, per arrivare ad un lieto fine che è la cosa meno peggio del film.

In definitiva una discreta operazione commerciale, che avrebbe funzionato con una pellicola normale o dalla normale ‘serializzazione’ ma che con un’opera di culto come l’Allenatore originale (fra l’altro visto poche sere fa anche su Retequattro) davvero non funziona. Con un retrogusto di tristezza per la troppa consapevolezza dei comprimari: degli addetti ai lavori e soprattutto dei calciatori. Misurata Ilaria d’Amico nel fare se stessa, sciolti Sconcerti e Mauro, bravo Piccinini e terribilmente realistico Mughini, mentre i giocatori davano troppo la sensazione di quelli che capivano l’importanza di ‘esserci’, magari con dietro un procuratore che gliene spiegava la convenienza. Da Buffon a Del Piero, da Totti a Galante, tutti professionali (anche Lotito con il suo latinorum) ma anche lontani dal concetto di ‘culto’. In questo senso non valevano una gamba dei Pruzzo o dei Chierico di metà anni Ottanta. Chiudiamo con qualche flash che ci ha scaldato il cuore: la presenza in poche scene di Urs Althaus (l’attore svizzero che interpreta Aristoteles), la presenza in campionato della Marchigiana (la squadra protagonista di ‘Mezzo destro mezzo sinistro’, con Gigi e Andrea e sempre Sergio Martino alla regia), l’inizio con le immagini degli azzurri a metà campo dopo il rigore di Grosso a Berlino. Non pochissimo, ma poco.

(pubblicato su http://www.settimanasportiva.it/index )

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