Torneranno i prati, un Olmi troppo condiviso

5 Dicembre 2014 di Stefano Olivari

Torneranno i prati, l’ultimo film di Ermanno Olmi, è l’ennesima prova che quando il messaggio di un’opera d’arte è troppo condiviso significa che questa opera dice in sostanza poco. Una semplice rimasticatura, magari benissimo realizzata, di canoni passati. Da qualche settimana nelle sale, il film del grande regista bergamasco è stato prodotto da Rai Cinema, in associazione con Cinema Undici e Ipotesi Cinema, con i contributi di Banca Popolare di Vicenza, Regione Veneto, Nonino, Edison, Vicenza Film Commission (Vicenza Film Commission? Ci vorrebbe Stalin, o almeno Putin), del Ministero dei Beni Culturali e non sappiamo di chi altro solo perché sui titoli di coda abbiamo perso la concentrazione. Se a questo si aggiunge che la prima è avvenuta alla presenza di Napolitano, ogni giudizio diventa superfluo. Effetto Rai Uno purissimo.

Ed è un peccato, perché il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale meritava una presa di posizione più forte non contro l’atroce assurdità della vita militare (film antimilitaristi per fortuna non sono mai mancati, nemmeno in Italia) ma contro le responsabilità di politici e generali, molti dei quali campeggiano con il loro nome ancora oggi in tante delle nostre città: ogni volta che passiamo in piazza Cadorna a Milano, e sono tante, non riusciamo ad accettare che ad uno dei responsabili dell’entrata in guerra dell’Italia (forzando la mano all’incerto presidente del consiglio Salandra), di varie sconfitte e soprattutto della criminale disfatta di Caporetto (causata da cattiva organizzazione e trasmissione degli ordini, in primis) siano intitolate ancora oggi una grande piazza e una stazione.

Tornando a Olmi, bisogna dire che il maestro traccia con precisione i caratteri di tutti protagonisti di una vicenda che si svolge in una imprecisata trincea veneta, in pieno inverno. Anche troppa, la precisione: dal soldato napoletano che canta al giovane capitano non di carriera che rimpiange casa, dal maggiore (Claudio Santamaria) che pretende il rispetto formale degli ordini al sergente rispettato dalla truppa, tutto è già stato stravisto. Olmi sa però rendere bene l’attesa, attesa di tutto: di una mossa degli austriaci, di un ordine preso da gente che nemmeno sa leggere una cartina, di una sortita suicida con ‘volontari’, ma soprattutto della fine dell’inverno e della guerra, quando torneranno i prati e tutto sarà finito e dimenticato. O, peggio ancora, ricordato in maniera retorica come se la guerra fosse utile solo per riempire libri.

Nei circa 70 minuti di film Olmi descrive bene anche la paura, che rende a volte miserabili e altre insensibili alla paura stessa: nelle molliche di pane messe a disposizione di un topino c’è tutta la poesia che l’Olmi meno ‘condiviso’ ha ancora dentro. Senza contare che Olmi, definito di default ‘regista cattolico’ da chi copia da vecchi ritagli, è uno dei pochi che sappia dire parole durissime non tanto contro le religioni (indifendibili) ma proprio contro l’esistenza di una divinità buona. Fotografare bene la natura e apprezzare le mosse di una piccola volpe non significa accettare un disegno che porta ragazzi a morire senza nemmeno sapere perché. E quindi? Film da vedere, angosciante e duro, ma non originalissimo e privo di quella carica eversiva che altre opere (su tutte, secondo noi, ‘Il posto’) di Olmi hanno. Forse in questo caso si è dovuto pagare un prezzo ai troppi finanziatori, o alla memoria troppo condivisa che dell’arte è nemica.

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