The Playlist, chi perde con Spotify

21 Dicembre 2022 di Stefano Olivari

Spotify per la musica è un bene o un male? Risposta difficile, tranne che per i cultori dei bei tempi andati ed i talebani dell’innovazione disruptive. Il merito di The Playlist, la serie televisiva svedese incentrata sulla nascita di Spotify ed appena vista su Netflix, è proprio quello di mostrare tutti i punti di vista, uno per puntata: quello del discografico, quello del programmatore, quello dell’avvocato, quello dell’artista, quello dell’imprenditore, quello del finanziatore. Gli episodi infatti sono sei e quasi dispiace che siano così brevi, da tanti che sono i temi in campo.

Fra i protagonisti il più protagonista di tutti è ovviamente Daniel Ek, nerd di Stoccolma che all’inizio degli anni Zero, con la crisi di Napster e il boom dei servizi pirata di musica in streaming, inizia a pensare ad una piattaforma legale che raggruppi tutta la musica del mondo. Così insieme Martin Lorentzon, la mente imprenditoriale ed il finanziatore iniziale del progetto, nel 2006 arriva alla creazione di Spotify. L’ostacolo più grosso sono ovviamente le case discografiche e viene superato dandogli quote di Spotify e percentuali enormi sullo streaming (fino al 70%), ma soprattutto grazie alla realtà: quando le major si rendono conto che scendere a patti con gli imprenditori tech è meglio che guadagnare zero dai siti illegali.

Il modello di business di Spotify è stato più volte modificato nel corso degli anni, ed il successo di pubblico dell’attuale modello misto, con versione gratuita (accettando pubblicità e limitazioni nel passaggio da un brano all’altro) e a pagamento, non corrisponde ad un successo economico. Nel terzo trimestre 2022 gli utenti attivi mensili sono aumentati del 20%, raggiungendo i 456 milioni (195 circa la parte di Spotify Premium) ed il fatturato annuale ha ormai sfondato quota 3 miliardi di dollari, ma nel solo terzo trimestre 2022 la perdita operativa è stata di 228 milioni di dollari. In altre parole: Spotify in 16 anni di vita è stato un affare per chi ha venduto bene le proprie azioni in Borsa, ma come azienda ha sempre perso soldi.

Tornando a The Playlist, davvero da consigliare a chi ama la musica ed il mondo tech, in tutto questo chi ci guadagna? Non gli artisti emergenti, con poche canzoni di successo in repertorio, che nell’era dei dischi fisici potevano invece fare il botto già all’inizio. Non gli artisti indipendenti, anche quelli con un buon pubblico, visto che di fatto si viene pagati in base al royalty pool, cioè al mercato nazionale, ed è ovvio che il singolo abbia sempre percentuali bassissime. Non Spotify, come abbiamo visto, nonostante Ek sia sempre ottimista. Alla fine i vantaggi sono tutti per le case discografiche con catalogo profondo, che abbracci molti generi e generazioni: per loro non è l’età dell’oro, durata da inizio anni Sessanta fino al web, ma per quelle grandi non va certo male.

Della serie abbiamo in ogni caso apprezzato in maniera particolare lo sfogo di Per Sundin, il discografico della Sony, contro chi ha la pretesa di ascoltare musica gratis, la filosofia di Andreas Ehn, il programmatore ancora più nerd di Ek, che comprende subito la fine della carica idealistica del progetto, le piazzate di Lorentzon per sorprendere l’interlocutore. Nell’episodio finale c’è anche l’audizione presso l’Antitrust statunitense, al tempo stesso fondata (perché Spotify in certi mercati è quasi monopolista nello streaming) e pretestuosa, visto come non vengano toccati i loro giganti tech. In definitiva si capisce bene perché oggi i cantanti di successo usino i pochi dischi per promuovere i concerti, mentre fino a due decenni fa avveniva il contrario.

stefano@indiscreto.net

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