The Gilded Age, capitalismo e lotta di classe

5 Maggio 2022 di Stefano Olivari

Vi è piaciuto Downton Abbey? Allora vi piacerà anche The Gilded Age, di cui abbiamo appena finito di guardare su Sky la prima stagione (la HBO ha già annunciato la seconda). La New York degli anni Ottanta, non i nostri ma quelli dell’Ottocento, non è l’Inghilterra di inizio Novecento, ma l’autore, Julian Fellowes, e lo schema sono gli stessi: in pratica il conflitto di classe in società in cui apparentemente non ci sono conflitti di classe.

La protagonista sarebbe Marian, che si deve trasferire a New York dalle sue ricche zie (una è Cinthya Nixon, la Miranda di Sex & The City) ed accettare tutte le convenzioni dell’alta società, insieme ai suoi muri invisibili ed ai suoi formalismi che sono sostanza. La scena è però presto presa da Bertha Russell, moglie di un magnate delle ferrovie che è straricca ma non le basta, vuole anche l’accettazione sociale ai massimi livelli e per ottenerla non lascia alcunché di intentato, arrivando alla leggendaria Mrs. Astor, arbitra indiscutibile di chi può entrare nel giro giusto e chi no.

Fellowes ha una grande mano anche quando analizza le aspirazioni e le piccole invidie della servitù, anch’essa divisa in classi. Nella vita reale lui siede alla Camera dei Lord, qualcosa di convenzioni sociali saprà. Essere un conservatore dichiarato non gli impedisce di piegarsi al televisivamente corretto inserendo una co-protagonista nera, Peggy, cosa che ci sta, ma inventandosi anche una borghesia nera che negli Stati Uniti del 1882 non era esattamente diffusa. Altra tassa pagata è la storia omosessuale, mentre mancano discorsi sul cambiamento climatico. Comunque onore a Fellowes, un altro successo fra i tanti, dopo Downton Abbey, The English Game ed altri di cui abbiamo parlato o parleremo, come Belgravia.

The Gilded Age, cioè l’età dorata, ha il fascino di tutti i grandi movimenti in fase embrionale, in questo caso si parla del capitalismo americano. Con le convenzioni ereditate dall’Europa, verso cui c’era una sudditanza culturale (bellissima la scena in cui si scopre che il cuoco francese di casa Russell è in realtà di Wichita, Kansas), ma anche uno spirito di conquista fortissimo, ad ogni livello sociale, che avrebbe reso gli Stati Uniti, nel bene e nel male (sempre comunque meglio di Cina, Russia o Congo), i leader economici e politici del mondo.

È quindi una serie che si lascia guardare da diverse prospettive, anche se non ci emoziona alcun personaggio, quel tipo di prodotto medio, un po’ meglio del Beppe Fiorello-Anna Valle-Lino Guanciale-Serena Rossi di Rai 1, che può essere visto insieme da marito e moglie, prima di dividersi fra la moviola di Calvarese e Quattro Hotel.

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