Cinema

The Apprentice

Stefano Olivari 24/01/2025

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Ci dispiace che The Apprentice non sia fra i candidati all’Oscar 2025, perché quello di Ali Abbasi è davvero un buon film al di là di come lo spettatore la pensi su Trump. In corsa per la statuetta sono però giustamente Sebastian Stan, nei panni di un giovane e meno giovane (l’ultima scena è ambientata nel 1987, quando l’attiuale presidente USA aveva 41 anni) Trump, e meno giustamente Jeremy Strong, già famoso per Succession, nei panni dell’avvocato Roy Cohn. Diciamo meno giustamente perché Cohn è il vero protagonista del film, con la sua storia personale decisiva in quattro decenni di America: uomo chiave del maccartismo, fra l’altro grande accusatore dei Rosenberg, e in seguito avvocato dei VIP, personaggio della politica americana (consigliere di Nixon e soprattutto di Reagan nella sua prima campagna presidenziale) e newyorkese, fra i primi famosi a morire di AIDS. Cohn gay al massimo grado ma in privato: fra le righe si suggerisce innamorato di Trump che non è turbato dalla cosa e in definitiva da niente.

La parte più emozionante di The Apprentice, che si smarca dallle solite logiche del biopic scegliendo uno sguardo più laterale, è quella in cui Cohn all’inizio degli anni Settanta addestra Trump, figlio di un costruttore di media taglia in mezzo a mille problemi legali e finanziari. Le tre regole di Cohn sono note e le potremmo sintetizzare così: attacca per primo, non ammettere mai di avere sbagliato, sostieni sempre di avere vinto anche quando perdi (a ben vedere sono anche le basi per emergere sul Muro del Calcio). Regole interiorizzate da Trump per farsi largo nell’edilizia del’agonizzante New York degli anni Settanta, nello showbusiness e infine in politica. Interiorizzate a tal punto di farle credere sue nell’autobiografia, culto degli anni Ottanta anche italiani (Trump: l’arte di fare affari) uscita nel 1987, un anno dopo la morte di Cohn. Certo il successo non è stato tutto dovuto a questi giochetti mentali e ai maneggi con la politica locale, se no tutti i costruttori sarebbero come Trump, ma anche alla visionarietà dei grandi imprenditori, incomprensibile sia ai criceti sulla ruota sia agli imprenditori normali.

Trump a Cohn deve anche il ‘Make America Great Again’ che esalta noi della trumpiana periferia Ovest e che è una rivisitazione del ‘Let’s Make America Great Again’ di Reagan ispirato proprio dall’avvocato. Al quale il film rende giustizia, nel bene e nel male, in un racconto che ovviamente non è piaciuto a Trump (a partire dalla scena dello stupro della moglie Ivana, episodio peraltro raccontato da lei stessa) ma che tramite la fiction e la libera interpretazione spiega la storia meglio di tanti compitini. Non si può diventare presidenti degli Stati Uniti senza essere un personaggio estremo e divisivo, la novità di Trump è che lui la divisività non la nasconde ma anzi la usa per trattare sempre da una posizione di forza. Amici e soprattutto nemici ancora nel 2025 si fanno dettare l’agenda da lui e dalle regole di Roy Cohn, senza davvero capire perché la classe media e quella bassa preferiscano credere alle cazzate di Trump invece che alle cazzate della destra guerrafondaia e della sinistra woke.

stefano@indiscreto.net

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