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Basket

Due settimane con Tamberi

Oscar Eleni 22/08/2016

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Oscar Eleni con occhiaie da notti olimpiche aggrappato al sacco per l’ultimo viaggio sul Bondinho, la funivia che porta in cima al Pan di Zucchero nella baia di Rio. Serviva un’indagine per scoprire se gli inviati dell’Italsport, che ora metterà il tiro a segno negli orari scolastici e la sabbia per il beach volley in ogni edificio per la santa istruzione, hanno lasciato ai tupi-guaran^, sacri custodi della collina, quel po’ di zucchero che serve per andare avanti. Eh sì, dopo le Olimpiadi anche gli Stati disperati e in bolletta devono pur continuare. Pazienza se mancheranno i fondi per le Paralimpiadi, tanto quelli della TV americana hanno fatto sapere che l’audience è in calo anche se le pubblicità sulle dirette sono state un gran successo, eppure costavano più che per i giochi di Londra dove ogni sport era onorato sul serio, ma questo è un discorso diverso e bisogna pur esplorare terre nuove. Certo i ragazzini delle favelas che giocavano con Lucchetta non si daranno subito al golf o alle biciclettine, ma qualcosa in loro resterà, come direbbe il Braz Da Silva medaglia d’oro brasiliana del salto con l’asta celebrato meno, di sicuro, di Neymar  dei calciatori, o dei pallavolisti di Copacabana e del Maracanazinho.

Diciamo che pensavamo peggio dell’avventura brasiliana nei Giochi della trentunesima olimpiade. Certo, dietro le quinte tanta immondizia, disorganizzazione, roba da farsi venire una crisi di nervi come ha denunciato qualcuno, come ci ha fatto sapere qualche inviato senza zucchero, come ha scritto benissimo sul Corriere Arianna Ravelli parlando delle immagini da vera Olimpiade che non rivedremo più. Siamo appena tornati a vivere notti normali ed eccoci schiacciati sotto il peso dello sguardo “torvo” di Mertens verso il Sarri che lo aveva utilizzato soltanto a partita iniziata, alla ricerca del rigore non rigore, al processo sommario per chi ha perso la prima partita e, magari, come De Boer, è arrivato ieri e non ha fatto in tempo come noi a rifugiarsi sulle tribune volute dal Moro in Santa Maria delle Grazie a Milano per ascoltare i cantori tedeschi Amarcord che cercavano la luce di Bramante fra le colonne di Guiniforte Solari. Certo l’olandese che ha sostituito Mancini ci andrà in quella chiesa di corso Magenta a Milano, magari per vedere il cenacolo vinciano, ma per capire anche dove dovrà pregare se Thohir resterà ancora a Rio. Non si preoccupi. Per costruire quella meraviglia ci hanno messo meno che ridare il Palalido allo sport milanese dove ora non ci sono squadre sportive da mandare in affitto e, probabilmente, si dovranno rifare dei  costi esagerati e non preventivati” con i concerti.

Torniamo a Rio e alle 28 medaglie italiane. Qui, lo sapete, hanno voluto pesarle allo stesso modo anche se per noi sembra ancora impossibile che Paltrinieri e il suo 1500 d’oro valga la mira di Rossetti o Campriani. Colpa nostra. Ma siamo nati, giornalisticamente parlando, quando in Gazzetta se avessimo fatto tanti errori nelle brevi per sport, mai considerati minori, non ci avrebbero fatto finire quel praticantato che ora è abolito dai nuovi social dove vale il detto dei venditori al mercato: chi grida di più la vacca è sua.

Sapevamo di dover vivere nella micragna l’Olimpiade della nostra atletica che ha salvato la faccina con le donne, non certo con gli uomini, ma qui avevano la scusa perché l’unico vero da medaglia, Gimbo Tamberi, si è infortunato alla vigilia. Sono strani questi della nuova atletica azzurro tenebra, quel nero sulle maglie ci stava e come, perché a Formia, magari passano personaggi che poi vincono le Olimpiadi, vanno a studiare dagli allenatori migliori, tipo il vecchio Petrov come dovrebbe ricordarci Gibilisco, ma difficilmente ci vedi italiani, soprattutto se in divisa. Quella alma mater era qualcosa di invidiabile per il mondo sportivo: era scuola, era emancipazione, cultura, studio, sofferenza, mai prigione, anche se all’inizio i grandi scapigliati di questo sport ne combinavano di ogni tipo, ma era un’atletica che si rinnovava anche dopo periodi di gloria. Tristezza va via, ma quando li rivedremo gli Ottoz, gli Ottolina, lo stesso Berruti prima di scampare agli agguati dei menneiani, i gruppi dorati dei saltatori, Simeoni in testa, ma anche il pittore Schivo, Azzaro, Crosa, quel Renato Dionisi che era arte e sregolatezza, re incantatore: facevano impazzire il Boldrini, il Placanica, i maestri gestori del centro dedicato a Bruno Zauli, il più illuminato dirigente sportivo italiano. Per lui Colasante ha scritto un grande libro, per noi: in quella storia dello sport nazionale ha cercato di trovare una strada che permetta di capire mentre intorno senti berci disumani di gente che urlerebbe al gestore, come certi inviati di una volta quando compravano pullover di cachemire: scrivici prosciutto, sulla ricevuta da farsi rimborsare.

Ci siamo goduti 15 giorni di sport, cadendo anche nel peccato inconfessabile di aver prestato attenzione persino al golf che nell’Olimpiade delle sofferenze c’entra come i cavoli a merenda e, al massimo, si spaventa per un cobra, ma soltanto perché lo commentava Losa che è uno appassionato di basket, ramo canturino, e che alla pallacanestro ha dato molto in Rai. A proposito, l’Olimpiade dei cesti ha avuto dalla Rai trattamento adeguato, poche informazioni sull’orario, qualche raddoppio, 2 partite su canali diversi alla stessa ora, ma è stato tutto commentato bene, salvo la ricerca dell’incredibile che esiste solo nei venditori al mercato, con meraviglia sentimentale per quel Brasile-Argentina che ci faceva dire addio a Ginobili e e che ha castigato il povero Magnano non capito da modesti giocatori di una scuola brasileira che non sembra più produttiva.

Tutti bravi e primi al traguardo del cuore del Giovanni Malagò che esce sorridente e vincitore, secondo il concetto una medaglia un monumento, come presidente del Coni che a Rio ha cercato anche di promuovere, con tanti ex atleti famosi, l’idea delle Olimpiadi a Roma nel 2024. Certo negli sport base c’è stato qualche rimpallo. Dal nuoto ci si aspettava molto di più come squadra, non come medaglie perché Detti ha preso almeno una di quelle che meritava la Pellegrini. L’atletica è quella che adesso si sbranerà per una nuova presidenza, ma intanto è all’anno zero in troppe discipline dove un tempo avevamo qualcosa da dire. Eh beh. Adesso il professor Calvesi viene ricordato con un memorial, ma dove sarebbero gli eredi della grande scuola, direbbe Oberweger sentendo imprecare Vittori che fa imprecare chi nella stessa atletica non lo ha amato del tutto. Almeno si litigava fino a notte fonda con Enzo Rossi che, prima di fare il sindaco e l’anziano che critica tutto, è stato un eccellente direttore tecnico capace di sussurrare ad ogni tipo di cavallo. Adesso si cerca il taralluccio per bere un po’ di vino insieme e gli atleti, intanto, passano da madonna Caporale, per salutare e ringraziare tutti: di cosa? Ah, saperlo. Ce lo spigheranno come hanno fatto in tanti per il caso Schwazer che secondo il Mura dei cattivi pensieri è stato un vincitore morale, lui e Donati, di questa Olimpiade. Prima o poi sapremo la verità? Qualcuno dice di saperla. Allora la tiri fuori. Con nomi e cognomi non soltanto grugniti per indicare che a Saluzzo ci sarebbero stati quelli della Spectre, perché a Saluzzo lo Schwazer campione olimpico a Pechino ci andava e anche volentieri. Ci mancheranno le Olimpiadi, non lo zucchero dei commenti, il delirio di chi ha preparato già il pezzullo da mandare quando toccherà ad altri commentare. Chiedete a Galeazzi.

Si torna alla vita di ogni giorno, ma certo ce ne siamo andati da incazzati neri come gridava il Peter Finch giornalista paranoico e furibondo di Quinto potere del maestro Lumet. Arrabbiati per cosa? Be’, per colpa di Tamberi, appassionato di basket come il Paltrinieri d’oro, perché il nostro primatista italiano di salto in alto quando gli hanno chiesto cosa pensasse della nazionale statunitense di coach K., di Durant e, pare strano, persino di Carmelo Anthony, ha spiegato che non ci sarebbero stati problemi perché avevano sempre giocato come il gatto col topo. Possibile che non avesse visto qualche crepa nelle vittorie non nettissime su Australia, Francia, Serbia? Aveva ragione lui, anche se noi diamo un bel dieci a Djordjevic che pure nel finale ha visto i suoi uomini d’oro, Teodosic (0 su 5 da 3) e Bogdanovic (0 su 7 da 3) finire nel gorgo dell’impotenza come capita sempre quando entri nel pianeta rosso della NBA e devi confrontarti, pur con arbitrucci nostri, scuola Fiba, belle figure a Rio per molti di loro, con gente che sa farti andare in paranoia, cercando di convincerti che tu stai ancora giocando a palla al cesto, mentre la vita del basket moderno vive sopra i 3 metri e 05 del canestro.

Certo se l’Italia gongola cosa dovrebbe dire la Serbia degli 8 milioni di abitanti che sarà anche trentaduesima nel medagliere con i suoi 8 trofei, ma alla fine ha avuto l’oro della pallanuoto, l’argento del basket maschile e della pallavolo femminile, il bronzo delle cestiste guidate da Marina Maljkovic, la figlia del grande Bozo maistore della Jugoplastica dei sogni, del Limoges degli incubi trevigiani, di tante storie cestistiche di qualità.

Tornare alla vita di ogni giorno felici per la consacrazione di Sasha Djordjevic come allenatore dopo il tormento ateniese, incantati dall’Australia anche se uomini e donne hanno mancato le medaglie del basket che meritavano, giurando al Pan di Zucchero che non abbiamo mai fatto scongiuri contro i Boomers nel ricordo di quel canestro di Gaze a Sydney 2000 che uccise l’Italia campione d’Europa già minata dal fuoco amico dentro e fuori dal villaggio dei balocchi. Ecco un aspetto delle Olimpiadi che si continua a trascurare. Nutrizionisti, motivatori, ma nessuno che sappia cosa succede davvero là dentro e le 10 olimpiadi che abbiamo seguito ci hanno appena aiutato a capire. Grande cosa vivere accanto a campioni e a gente di razza, religione, lingua diversa, ma in quella confusione si perde la mistica, ogni cosa diventa magica: poi in gara non tutti si rendono conto che chi ti sorrideva alla mensa è pronto a buttarti fuori. Non bastano le prove, nella realtà è tutto diverso, come in partita diceva quell’allenatore di baseball. Il villaggio di Nomadelfia. Un abbaglio. Molti ne restano incantati e perdono le loro scarpette magiche, il costume dei sogni.

Grazie Rio, grazie Italia? Be’, se volete, se vogliamo. Quindici giorni diversi. Adesso ci tocca tornare sulla terra, al fallo che esiste soltanto se il giocatore protesta, ma poi, se protesta, come raccontano certe trovate di Cochi e Renato, dobbiamo accettare la protesta? Protesta cosa? Eh no. Attenti a voi, agli sguardi dei ragazzi che baciano la maglia che avrebbero benissimo lasciato al magazziniere se da altre parti avessero avuto le offerte di Pogba o di Pellè che, come dicono i medagliati azzurri felici di poter svenare il Coni con in premi olimpici, col 42% di ritenuta fiscale, sono più o meno la paga settimanale dei calciatori, anche quelli che non erano niente come i milanisti prima che Donnarumma parasse il rigore e facesse prendere al telecronista il testimone lanciato a caso da Rio: per questo il calcio è il più bel gioco del mondo. Lo ha detto anche il nipote di Merckx vincendo l’oro dell’hockey su prato, ma non per il Belgio.

Tornare a noi, a Reggio Emilia che per due giornate sarà “esiliata” al pala Dozza bolognese e quando tornerà a casa si troverà quasi lo stesso pala Bigi , qualche posto in più, vernici più vistose, tende meno permeabili al sole.

Per quanto ci riguarda abbiamo già la tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo dove il carceriere di turno, quello che vorrebbe soltanto consensi, manda avanti il cameriere con la stessa livrea unta che ci ricorda al raduno dell’Emporio Armani la ‘fantastica doppietta, coppa Italia e scudetto’.

Dal fantastico di Rio a questo sulla Darsena. Così è la vita, così vanno le cose. Buon proseguimento.

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