Superiorità genetica

13 Settembre 2010 di Simone Basso

di Simone Basso
Finisce l’estate a Istanbul e ce la godiamo grazie alla tivù tedesca, mentre Nonna Rai (forse per dirottarci su Miss Italia) cripta il segnale su Sky: il digitale terrestre viene imposto in maniera militare…Mondiali di medio termine, attendendo il rito olimpico, che malgrado il livello così così hanno divertito. La finale, davanti a un muro di 15.000 spettatori, ha visto lo showdown tra le due unità più meritevoli: i padroni di casa, mammaliturchi, la formazione che ha espresso la pallacanestro più equilibrata e logica, opposti a quella con il potenziale chiaramente più spaventoso ovvero gli States. A dispetto dei santi e del primo quarto ruvido, gli yankee controllano la contesa a piacimento; mostrando senza molto pudore una superiorità genetica che talvolta fingiamo di non riconoscere.
In questi ultimi anni di globalizzazione virtuosa, si sta diffondendo come la salmonella un opinionismo di comodo tra gli appassionati europei; trattasi di una rilettura becera del basket contemporaneo. La canzoncina è che la Nba valga pochissimo, ridotta ad esibizione circense, e che il mondo Fiba sia diventato depositario della verità cestistica: una visione comoda e miope della realtà.
Ricordano, ma a soggetto invertito, gli stereotipi sui Maestri Americani che ci propinavano trent’anni fa. Eppure, conversando con un allenatore “bravino” che si siedeva su una delle due panchine finaliste, riguardando le partite Nba dei Settanta ci siamo accorti che un Cresimir Cosic, rimanendo dall’altra parte dell’Atlantico (lui, mormone di BYU), avrebbe scintillato lo stesso.
Team Usa vince con una selezione comprendente solamente due dei loro migliori quindici giocatori, forse tre nelle serate di plenilunio del poliedrico Lamar Odom; quantitativamente rimangono, senza molte discussioni, il movimento egemone. E lo saranno ancora tra due anni, a Londra, anche se il Gesù catalano e i suoi discepoli riuscissero nell’impresa di batterli. Sternville vende un prodotto per intortare le masse e lo fa benissimo, ma sragionare sulle clownerie proposte da certe partite di regular season o da Nba Action (uno spot!) sembra un po’ eccessivo: il basket vivaddio è diventato di tutti e, tecnicamente, ha visto la crescita esponenziale di realtà che un tempo erano ininfluenti. Certo personale americano ci pare confuso soprattutto per le differenze regolamentari e l’idea hip hop di alcune sue interpretazioni: quindi oggi in Nba gli Atlanta Hawks, una banda di pazzi incapace di andare oltre gli isolamenti e l’uno contro uno reiterato, convivono con i Boston Celtics, il collettivo con l’applicazione difensiva più militaresca del globo.
Se il Danny Granger di turno, con quello chassis sontuoso, è un analfabeta del gioco il demerito è della declinante Ncaa, antico scrigno di idee trasformatosi in un mercimonio sentimentale. Per ogni professore alla Mike Krzyzewski imperversano almeno un paio di reclutatori “svegli” alla John Calipari: abbastanza logico quindi lo spreco delle risorse umane, visto che la concezione woodeniana è stata svilita dal miraggio dei dollari in serie. Ma hanno la fortuna di un serbatoio immenso di talenti che può condurre alla genesi di un Kevin Durant, la cui superiorità in ambito Fiba è parsa a tratti imbarazzante; alla faccia del “one and done”, l’ennesima dimostrazione di un prototipo cestistico senza eguali. Gervinesco nell’eleganza sinuosa dei gesti, immarcabile in ogni specialità offensiva e con margini di miglioramento che potrebbero condurlo all’onnipotenza assoluta: è il futuro probabile nell’evoluzione della specie.
D’altronde il momento migliore della rassegna si è verificato durante il primo tempo di Turchia-Slovenia: per la gioia del profeta Tanjevic (uno che ha allevato i Delibasic, i Bodiroga, i Fucka) il quintetto prevedeva Hedo Turkoglu (2,07) come guardia.
L’utopia felice di un basket privo di ruoli, dove tutti fanno tutto; ci vogliono i visionari alla Boscia per progredire verso la Terra Promessa. Per il resto si sono visti troppi pick and roll (un’ossessione..), i soliti tiri ignoranti che impoveriscono il senso del giochino e le zone bulgare; ma anche un combo che gioca il basket percentuale che appartiene alla loro tradizione, i lituani, e il trionfo strameritato degli allenatori santoni come Coach K, Tanjevic e Ivkovic.
Scrivendo di Europa, e considerando i toreri Pauless ancora i più forti della ciurma, il futuro sarà serbo: un gruppo giovanissimo, ma già esperto e con una serie di scugnizzi (Keselj, Teodosic, Velickovic) dalla faccia tostissima. Il resto del mondo, lasciando da parte un universo che può permettersi di lasciare a casa un Roy o un Deron Williams, può esibire una scapigliatura come quella neozelandese o la saudade brasiliana, la depressione di una formazione potenzialmente fortissima ma con il virus dell’harakiri nei finali calienti. Il derby sudamericano è stata la partita più bella della manifestazione, un omaggio doveroso alla nazionale che ha dominato la scena internazionale per quasi un ciclo olimpico. La nostra immagine simbolo dei Mondiali sono gli ultimi due possessi di Luisito Scola in quella sfida: con il punteggio sul filo del rasoio, il primo canestro in fadeaway con la mano di Anderson Varejao in faccia spiega meglio di mille parole il fascino di un gioco meraviglioso.
Simone Basso
(in esclusiva per Indiscreto)

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