L’ultimo urrah del ventrale

25 Giugno 2014 di Stefano Olivari

Il 2,35 di Vladimir Jascenko agli Europei Indoor del 1978, in quel Palazzo dello Sport di San Siro distrutto dall’incompetenza (la vox populi dice dei costruttori, ma in realtà la colpa fu di chi gestì l’emergenza neve senza aver mai visto prima la neve in vita sua), è uno di quei momenti dello sport che tutti i viventi all’epoca ricordano. Per motivi legati ai media degli anni Settanta (pochi canali, tutti guardavamo le stesse cose) ma anche per l’impatto che una figura come quella di Jascenko ebbe sull’immaginario collettivo. Nella nostra modestia di bambini multisportivi, mentre adesso sappiamo tutto solo di Prandelli e De Rossi, quel 12 marzo eravamo presenti e quel salto ventrale non ce lo siamo ancora tolti dalla testa. Ma fin qui stiamo parlando di un campione dell’atletica, come ce ne sono stati tanti… Rendiamo quindi merito a Giuseppe Ottomano, appassionato storico dello sport, di avere ricostruito vita e carriera di uno degli ultimi eroi dello sport sovietico. Lo ha fatto nel suo appena uscito ‘Il volo di Volodja” (Miraggi edizioni, con prefazione di Franco Bragagna e un ricordo del professor Vittori), che tratta in maniera approfondita le vicende sportive ma sa andare anche al di là: diversamente non si capirebbe come mai un saltatore in alto che è stato grande da giovanissimo solo per tre stagioni sia messo ancora oggi da russi, ucraini e dintorni sullo stesso piano di Borzov, della Korbut, di Belov, eccetera. Ottomano ricostruisce bene le logiche del sistema sportivo sovietico, capace di valorizzare talenti anche a Zaporizzja (la città ucraina dove Jascendo è nato nel 1959 e morto 40 anni dopo) e di portarli ai vertici mettendogli a disposizione tutto quanto fosse possibile in una dittatura comunista, come forse solo la DDR era in grado di fare su larga scala. A 17 anni Jascenko salta 2,22, a 18 (!) arriva al record mondiale assoluto: 2,33, superando il fosburista americano Dwight Stones, a 19 è un divo planetario: merito dell’aspetto fisico (alto quasi 1,95, lunghi capelli biondi, sguardo triste) ma anche del fatto di essere l’uomo di punta dell’atletica mondiale in maniera paragonabile a quella del Bolt odierno. Dopo il 2,35 di Milano, record mondiale indoor, un altro record all’aperto (2,34) e una gran chiusura di stagione con l’oro agli Europei di Praga (nella gara femminile vince Sara Simeoni, eguagliando il suo mondiale di 2.01). Jascenko ha l’Unione Sovietica ai suoi piedi, non occorre un grande marketing politico per farne l’immagine dei Giochi Olimpici di Mosca del 1980. Ma nel 1979, a 20 anni, l’atleta Jascenko muore. Un problema al ginocchio, la rottura dei legamenti, qualche polemica sugli eccessivi carichi di lavoro sopita dal sistema. Tutto il paese aspetta con il fiato sospeso il suo miracoloso recupero per i Giochi, ma Jascenko non ce la fa e inizia anche a non avere più voglia. Si isola sempre di più, alla ricerca di silenzi e di un senso che nel salto in alto forse non ha mai trovato: ha goduto dei benefici di un grande atleta in quel sistema, ma non ha mai avuto il fuoco sacro e il libro lo fa capire bene. Anche il privato, in caduta libera fra vicende personali e alcolismo, è ricordato nel libro, mentre la parola fine sulla carriera di saltatore avviene nel 1983, con misure quasi femminili. Jascenko vivrà fino a 40 anni in ristrettezze finanziarie. Da casa sua assiste alla dissoluzione di un impero di cui è stato il divo più strano e probabilmente più amato: credibile sia come stella dell’URSS che come personaggio pop occidentale, non ha saputo e voluto crearsi una vita al di fuori dei suoi anni di gloria.

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