Steve Bruce uno di noi

16 Aprile 2021 di Roberto Gotta

Newcastle United-West Ham United, prima partita del sabato di Premier League, capita al momento giusto. Forse. Perché in realtà del Newcastle si può parlare in ogni momento e in ogni momento, da alcuni anni, ripetendo le stesse cose, non esaltanti, visto che anche quest’anno il pericolo di retrocessione c’è, nonostante il +6 e la partita in meno rispetto al Fulham, terz’ultimo.

Un club dal potenziale enorme, una città, circondario compreso, con quasi 900.000 abitanti: lasciando stare le glorie del passato, a cui spesso ci si appiglia, basterebbero queste considerazioni a far capire il drammatico divario tra aspettative e realtà, speranze e risultati. Il proprietario (dal 2007) Mike Ashley aveva iniziato benino, proponendosi come quel tifoso che in realtà non era e sedendo spesso accanto ai fan normali, al punto da preferire stare in mezzo a loro, in occasione di un derby esterno a Sunderland, che non nel box privato a lui riservato.

Le regole vietano che nelle zone vip si indossino maglie delle squadre – accade ad esempio anche a Wembley per le semifinali e finali di FA Cup – e in quell’occasione Ashley venne posto di fronte a una scelta: o ti togli la maglia del Newcastle o non ti facciamo entrare anche se sei il proprietario. Con la crisi interna che aveva portato alle dimissioni di Kevin Keegan, tornato da pochi mesi ad allenare il club, era però iniziato nel settembre 2008 il progressivo allontanamento con i tifosi, tanto che Ashley aveva messo in vendita il club già pochi giorni dopo la partenza del suo allenatore. Da quel momento non c’è stata più pace: tra propositi di cessione mai concretizzati, due retrocessioni, scelte sbagliate, ostilità.

Anche le scelte azzeccate (Rafa Benitez) sono diventate fonte di attrito nel momento in cui l’allenatore spagnolo, amatissimo dai tifosi anche per la scelta di restare e riportare il club in Premier League dopo la retrocessione del 2015-16, che era arrivato troppo tardi per impedire, si è posto come garante dei supporter stessi presso il proprietario, destreggiandosi con abilità tra i due fuochi e causando, con la sua partenza nell’estate del 2019, l’ennesima crisi.

Non risolta con l’arrivo di Steve Bruce, nato da queste parti, tifoso da sempre anche in nome del padre. Personaggio che dovrebbe rappresentare quello spirito guerriero, tenace, solido, poco incline al piagnisteo che contrassegna nell’immaginario popolare l’esponente locale tipico, in panchina, in campo e sugli spalti: una costruzione ideale e romantica che fa parte del corredo di appartenenza a cui moltissimi aderiscono in maniera acritica, nel disperato tentativo di differenziarsi dagli altri, e che qui nemmeno servirebbe perché già la pronuncia e la parlata raccontano tutto. Bruce, 60 anni, negli ultimi mesi ha subito un massacro a livello di social media, e un sondaggio di fine marzo del maggior quotidiano locale ha dato esiti tremendi: il 95% (!) dei 14.000 che hanno compilato il questionario ritiene che debba andarsene, il 92% teme la retrocessione con lui in carica ma è interessante notare come il 53% dia la colpa della situazione ad Ashley e solo il 34% a Bruce stesso. Colpa per…? Per il 49%, tattiche di gioco non azzeccate, 19% per aver perso il controllo dello spogliatoio, 13% per le formazioni messe in campo. Moltissimi, inoltre, hanno aggiunto la nota forse più dolorosa: ‘Bruce non è uno di noi’. Ripudiato insomma dagli stessi tifosi di cui farebbe parte se fosse una persona libera, e a cui ha sempre guardato.

Il bello – o forse no – che la storia del Bruce giocatore è quella che invece sposa perfettamente l’immagine che dovrebbe piacere ai tifosi: sottovalutato, respinto dopo i provini per varie squadre (Newcastle compreso) perché gracilino, stava per abbandonare il calcio e tornare a lavorare in un cantiere navale quando a 19 anni venne preso in extremis dal Gillingham, squadra del profondo sudest da lui così lontano anche per mentalità, e presto trasformato da centrocampista a difensore. A 25 anni fu votato miglior giocatore della finale di Coppa di Lega vinta dal Norwich City sul Sunderland e solo a 27 andò al Manchester United dove divenne un punto di forza della riforma di Alex Ferguson, segnando anche due gol di testa, all’86° e al 90°, nella vittoria sullo Sheffield Wednesday decisiva per il titolo del 1993. Un giocatore di mezzi limitati, di irruenza a volte fuori controllo nei primi tempi (nel 1983 si ruppe una gamba cercando di far male ad un giocatore avversario) ma leader vero e comunque capace di discreti tocchi in fase di uscita, se mai lo United avesse avuto quelle intenzioni.

Uno che ha ottenuto più di quanto gli avrebbero dovuto permettere le doti naturali e dunque ‘uno di loro’, come mentalità e carattere: eppure ripudiato per la gestione di una squadra che quest’anno a volte non ha avuto nemmeno bisogno di essere gestita, ridotta com’era a poco più di 11 giocatori disponibili, particolarmente tra novembre e gennaio, quando la rapida trasmissione del contagio da Covid mise ad un certo punto fuori casa 12 membri della rosa tra cui il capitano Jamaal Lascelles e l’attaccante Allan Saint-Maximin, entrambi colpiti in maniera debilitante. A causa del rendimento mai esploso di Miguel Almiron, Saint-Maximin, a cui è stato prolungato il contratto fino al 2026, è l’unico giocatore in grado di cambiare ritmo, di spezzare il tran-tran e vivacizzare, e la sua assenza è stata decisiva.

Anche per questo Bruce, che aveva iniziato il 2020-21 con il 4-2-3-1, ha modificato spesso modulo e formazioni, passando spesso alla difesa a tre ma anche a soluzioni con addirittura Almiron o Ryan Fraser finti numeri nove. Ha avuto un Joelinton di fatica ma scarsa precisione e attitudine al gol, ad un certo punto così preoccupato all’idea di sbagliare da aver scelto un assist laterale – poi non concretizzato – piuttosto del tiro, quando si è trovato a pochi metri dalla porta e con il solo portiere avversario da superare. In molte partite ha scelto di fare muro e puntare sul contropiede, ma mettendo in campo giocatori non eccelsi palla al piede, col risultato di perdere subito il possesso e finire sotto assedio costante; in altre gare ha visto i suoi cercare di essere propositivi salvo perdere palla e subire gol, con Brendan Rodgers, allenatore del Leicester City, a sottolineare proprio la cattiva organizzazione difensiva che rendeva il Newcastle particolarmente vulnerabile sui rapidi rovesciamenti di fronte una volta perso il possesso.

Ha fatto dunque quel che ha potuto, Bruce, o meno? La risposta dei tifoso parrebbe chiara, ma i tifosi raramente leggono le situazioni a bocce ferme e animo tranquillo: vero però che dopo lo 0-1 sul campo dello Sheffield United, fino a quel giorno di metà gennaio ancora non vittorioso in campionato, Bruce aveva perso la pazienza e detto «da oggi via i guantoni, combatto a mani nude, da oggi farò le cose a modo mio», lasciando dunque il dubbio su cosa avesse fatto di suo nei mesi precedenti. Ripetutamente sottoposto a impietose domande sulla percezione dell’ostilità nei suoi confronti, sui suoi rapporti con Ashley, sui sospetti di scarsa raffinatezza tattica, Bruce si è difeso, ha replicato, ha provato ad argomentare, offeso – comprensibilmente – nel sentirsi definire uno sprovveduto nonostante le quasi 1000 partite gestite dalla panchina, le quattro promozioni in Premier League ottenute in passato e lesaltante percorso con lHull City fino alla finale di FA Cup del 2014, col 2-0 quasi immediato sullArsenal e però la sconfitta poi 2-3 ai supplementari.

Gli va riconosciuta una mossa decisiva: quella di aver chiesto, l’estate scorsa, solo acquisti di giocatori britannici e dunque già pratici di Premier League. Quindi l’ottimo Callum Wilson, Jamal Lewis, Jeff Hendrick, Fraser, la conferma di Dwight Gayle: l’adattamento di eventuali calciatori stranieri avrebbe forse fatto perdere quel paio di partite in più che oggi avrebbero messo davvero nei guai il club. Ma la negatività è tale che la notizia del rinnovo triennale del contratto di Gayle è stata accolta con un ragionamento pressoché unanime: Ashley e Bruce sono così sicuri di retrocedere da aver voluto tenere un attaccante che in Championship ha già dimostrato di saper fare la differenza.

E nelle ultime ore è tornata di attualità la candidatura di un gruppo per l’acquisto del club. Si tratta della cordata guidata dall’imprenditrice Amanda Staveley, che nel 2008 aveva fatto con successo da mediatrice per l’acquisto del Manchester City da parte del consorzio di Abu Dhabi. La Staveley e alcuni soci avrebbero il 20% del Newcastle, con l’80% nelle mani del Pif, il fondo sovrano dell’Arabia Saudita. Esattamente un anno fa il gruppo aveva fatto un’offerta di 310 milioni di sterline e Ashley l’aveva accettata, ma la Staveley si era tirata indietro, a fine luglio, per le lungaggini del meccanismo di approvazione della nuova proprietà da parte della Premier League. Tirata indietro ma solo in apparenza, perché in realtà restano forti la volontà di acquisto da parte del gruppo e di cessione da parte di Ashley: manca però l’ok della Premier League, e il mese scorso la corte suprema ha rigettato la richiesta del club di rimozione del presidente della commissione esaminante. La vicenda è tornata di attualità nelle ultime ore, per via della rivelazione che lo scorso anno il reggente saudita, principe Mohammed bin Salman, avrebbe chiesto al Governo britannico di intervenire presso la Premier League stessa.

Un nodo difficile da sciogliere, e intanto il Newcastle affronta l’ultimo mese di stagione ospitando una squadra in grande forma, anche se propensa a subire rimonte: in settimana l’onda di approvazione ed esaltazione di Jesse Lingard, otto gol in nove partite con la maglia del West Ham, ha sommerso tutto e tutti, ma la curiosità è che Lingard stesso era candidato ad andare in prestito proprio al Newcastle, grazie anche ai contatti che Bruce ha tuttora al Manchester United, squadra che lo ha sotto contratto ancora fino a giugno. Era interessato anche allo Sheffield United, soluzione che gli avrebbe permesso di restare a vivere a Manchester, ma al momento di decidere ha preferito il West Ham per il momento positivo della squadra, reduce da una serie di risultati favorevoli mentre il Newcastle era in una serie di cinque sconfitte consecutive. Lingard temeva che l’emergenza dei Magpies non gli avrebbe consentito un utilizzo sereno, e la sua scelta è stata premiata: i suoi 8 gol dall’1 febbraio, dopo gli zero minuti di campionato giocati fino a quel momento, sono più di quelli che in tutta la stagione hanno segnato Sadio Mané, Richarlison, Phil Foden, Jack Grealish e Kevin de Bruyne, anche se naturalmente nel caso degli ultimi tre non è dai gol segnati che si misura il contributo alla squadra.

Un ultimo dettaglio: Newcastle-West Ham e le altre partite di questo turno sono il ritorno della… prima giornata di campionato, giocata nel fine settimana del 12-14 agosto, e si giocano dunque dopo che un’altra giornata ha già visto completare il ritorno. Sono quelle che a noi paiono stranezze del calendario inglese, ma che in realtà sono semplicemente l’eredità storica di tornei compilati con un pizzico di libertà e non un rigido sistema a specchio.

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