Stellantis, l’addio della Fiat all’Italia

5 Gennaio 2021 di Indiscreto

FCA, Fiat Chrysler Automotives, e PSA, gruppo Peugeot-Citroen, si sono fuse in una nuova azienda che si chiamerà Stellantis. Il matrimonio fra Fiat e Peugeot, annunciato il 31 ottobre 2019, alla fine è stato quindi celebrato. Per la gioia di tutti, dagli Agnelli Elkann a Macron, tranne che degli operai italiani del gruppo FCA: non scommetteremmo sul futuro dei sei stabilimenti rimasti, nonostante i miliardi dello Stato italiano regalati a alla Fiat nel corso dei decenni con il ricatto socialmente accettabile dell’occupazione. Gli ultimi, speriamo ultimi in ogni senso, i 6,3 di Intesa San Paolo garantiti dalla Sace.

Diamo al solito per scontata la conoscenza della notizia sulla nascita del quarto gruppo automobilistico al mondo per vendite, dopo Toyota, Volkswagen e Renault-Nissan, ed andiamo direttamente al commento, che è il seguente: comprendiamo l’entusiasmo mediatico, viste le proprietà dei media e l’importanza degli spot pubblicitari per l’agonizzante editoria, ma un po’ meno il disinteresse politico per un’operazione che crea un’entità che di italiano ha pochissimo. Stellantis avrà sede sociale in Olanda, proprietà a maggioranza non italiana (gli Agnelli-Elkann, per quanto siano italiani per modo di dire, valgono il 14,4 %), vincoli produttivi e di presenza industriale soltanto in Francia e questo non per colpa dei francesi ma per la cagnaggine dell’attuale  governo italiano che non li ha pretesi.

Non occorrono grandi analisi per capire chi ha in mano il pallino: l’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, è espressione di PSA ed i consiglieri espressi da FCA, 5 su 11, sono la minoranza. Una cessione di sovranità ben pagata, visto che FCA incasserà un dividendo straordinario di 2,9 miliardi. In futuri post entreremo nel merito dei modelli e delle auto, cioè la cosa che ci interessa di più, ma per il momento notiamo che l’Italia ha perso un’altra grande azienda, che fra i vari difetti aveva il pregio di produrre qualcosa di concreto. Poi possiamo esaltarci per lo street food dell’antica Pompei e autoconvincerci che in Italia c’è il 70% (e perché non il 99?) del patrimonio artistico mondiale.

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