All Star Game NBA 2015, a tutto Gasol

12 Febbraio 2015 di Stefano Olivari

L’All Star Game NBA non è vera pallacanestro, ma della pallacanestro è la massima celebrazione mediatica: sta al gioco come la notte degli Oscar sta al cinema, è importante più che altro per vedere chi c’è e chi manca. Basta questa banale istruzione per l’uso per godersi lo spettacolo che inizia domani a New York, dividendosi fra il recentissimo Barclays Center casa dei Brooklyn Nets e lo storico Madison Square Garden casa dei Knicks. L’evento più atteso è ovviamente quello di domenica, che mette di fronte le selezioni di Eastern e Western Conference, ma la vera novità la potremo vedere già domani, quando nella partita riservata a rookie e sophomore, cioè giocatori al primo o al secondo anno di NBA, non ci sarà più una divisione cervellotica fra amici di questo o di quest’altro ma un più stimolante Stati Uniti contro resto del mondo. Un’innovazione fortemente voluta dal commissioner Adam Silver, per dare un po’ di brio a una partita che dopo pochi minuti di solito degenera in numeri da campetto con intensità troppo bassa anche per un’esibizione. Il rischio, anche se nessuno per correttezza politica ne parla, era quello di proporre un neri contro bianchi, ma gli allenatori (Gentry, assistente di Kerr agli Warriors, e Atkinson assistente di Budenholzer agli Hawks) sono stati abbastanza ispirati da mescolare il tutto. In ogni caso gli Stati Uniti pieni di buoni elementi, con Michael Carter-Williams come faro, rischiano grosso contro un Mondo che schiera la prima scelta assoluta dell’ultimo draft Andre Wiggins (Timberwolves, Canada), una stella dal potenziale ancora inesplorato come Giannis Antetokounmpo (Bucks, Grecia), Nikola Mirotic (Bulls, Spagna) e altri che a prima vista sembrano più forti e motivati degli americani.

Una vera prova generale per ciò che dovrà essere la partita dei ‘grandi’ nel futuro, anche se in questo caso l’ego smisurato dei campioni ha sempre alzato l’intensità senza bisogno di motivazioni supplementari. Il meccanismo con cui si arriva a scegliere i dodici migliori di ogni conference dice molto della NBA, visto che soltanto sette elementi sono decisi dagli allenatori e che i quintetti base nascono da una votazione popolare: quest’anno non si è arrivati alla Cina che votava in massa per Yao Ming infortunato da mesi, ma l’inserimento nel quintetto della Western di un Kobe Bryant al capolinea ha imbarazzato tutti gli addetti ai lavori tranne lo stesso Bryant. Che gli dei del basket hanno poi tolto di mezzo tramite un infortunio alla spalla: ancora una stagione con i Lakers, a 25 milioni di dollari, poi i saluti. Un infortunio ha tolto di mezzo anche Blake Griffin, quindi i tre della Western scelti dalla ‘gente’ sono il sensazionale Stephen Curry, possibile MVP della stagione e più votato (1.513.324 preferenze), Anthony Davis e Marc Gasol. Il centro dei Grizzlies vedrà dall’altra parte, sempre in quintetto, suo fratello Pau, con l’Est completato da John Wall, Kyle Lowry, Carmelo Anthony e un nervoso (anche se i Cleveland Cavs qualche buon segnale lo stanno mandando) LeBron James, il secondo più votato. La panchina dell’Ovest (Duncan, Paul, Westbrook, Durant, Harden e Klay Thompson, idolo dei puristi del gioco per i suoi movimenti da manuale) spiega ancora meglio delle statistiche la differenza fra le due conference.

In mancanza di grandi contrapposizioni e rivalità, in una lega in cui tutto viene di solito cloroformizzato nel nome del marketing comune, i riflettori dell’All Star Game numero 64 saranno soprattutto sui Gasol, per l’orgoglio dei genitori Agusti e Marisa. Seconda coppia di fratelli, nella storia, a disputare questa partita dopo i Van Arsdale (Dick e Tom erano anche gemelli) nel 1970 e 1971, sono abituati ad essere avversari tranne che nella Spagna, con cui hanno vinto tutto tranne l’oro olimpico. A Chicago il trentacinquenne Pau sta giocando benissimo e smentendo fuori tempo massimo la nomea di ‘soft’ che nella NBA del machismo è vicina all’insulto, mentre a trenta anni Marc si sta guardando intorno per una squadra da titolo (Pau ne ha vinti due con i Lakers). Mai i fratelli catalani si sono incrociati nell’amato Barcellona e nemmeno nell’All Star Game, a cui Pau ha partecipato quattro volte e Marc solo una (nel 2012) ma quando Pau non c’era. Il loro rapporto è fortissimo al punto da avere generato problemi nella nazionale spagnola sia con Ibaka che con Mirotic: tensioni che al Mondiale dello scorso anno, disputato proprio in Spagna (senza Mirotic, perché come naturalizzato fu scelto Ibaka), sono state anche alla base del deludente, in rapporto alle aspettative, quinto posto. Certo è che Marc ha ormai superato Pau, pur essendo un giocatore parzialmente costruito e non un predestinato come Pau. Anche il terzo fratello Gasol, il ventiduenne Adrià, ha tentato lo stesso percorso e addirittura nella stessa scuola di Marc, la Lausanne (così chiamata senza particolari agganci con la Svizzera, soltanto per dare un’idea di serietà) Collegiate School di Memphis, ma il talento è inferiore e dopo una stagione da panchinaro a UCLA sta ripartendo dalle minors catalane.

Al di là delle notizie dell’ultima ora (infortunio di Wade, sostituito da Kyle Korver) e delle biografie degli allenatori (Kerr è scivolato direttamente dal commento televisivo alla panchina degli Warriors, Budenholzer per avere nel 2013 la chance degli Hawks è passato da 17 anni di assistentato sotto Gregg Popovich a San Antonio), è importante notare che i Gasol sono gli unici due giocatori europei (su tre stranieri, il terzo è il dominicano Horford) dei 24 che andranno a referto e che non sono più ragazzini. È stato l’anno del record dei cosiddetti ‘international players’, 101 a inizio stagione, ma in molti casi si è trattato di scommesse a basso costo oppure di marketing etnico in una lega dove la percentuale di giocatori neri sfiora l’80 e quella di spettatori bianchi l’85%. Percentuali che anche l’All Star Game 2015 confermerà.

 (pubblicato su Il Giornale del Popolo di giovedì 12 febbraio 2014)

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