St. Louis senza passione

27 Maggio 2014 di Stefano Olivari

La ventisettesima città, di Jonathan Franzen, contraddice in modo clamoroso il principale dogma della critica letteraria e musicale. Ecco il dogma: l’opera migliore, la più vera e autentica, è sempre la precedente. Da cui il sottodogma: il primo libro e il primo disco sono sempre da preferire a tutto ciò che è venuto dopo (nel cinema, schiavo del mito dell’anziano maestro, funziona diversamente). Ecco, il primo dei quattro romanzi di Franzen (siamo partiti a leggerli dal quarto, Libertà), che abbiamo appena terminato, è un tentativo di romanzo americano ‘alto’, quello che non si pone il problema di quanto una storia sia appassionante ma che mira direttamente all’affresco di un’epoca facendo scendere in campo mille personaggi, di cui 990 estremi e/o improbabili, tutti al servizio della visione del mondo del demiurgo-genio. Il problema è che la visione del mondo del Franzen di 29 anni (il libro è del 1988) è incomprensibile e non certo per la mescolanza di temi, in teoria tutti interessanti: politica in senso affaristico, influenza dell’urbanistica sul quotidiano, provincialismo a vari livelli, legame fra razzismo e antirazzismo, finitezza delle esperienze di vita. La storia, in sintesi: siamo nel 1984 e una St.Louis che va avanti con il suo tran tran, fra riunioni di notabili locali e progetti di corto respiro, viene sconvolta dall’arrivo a capo della polizia di una indiana (nel senso di India), S. Jammu, i cui metodi innovativi e non solo repressivi hanno avuto grande successo a Bombay. In realtà Jammu è ideatrice ed in parte esecutrice di un piano che mira a penetrare nella buona società di St. Louis, con l’obbiettivo primario di mettere a segno una colossale speculazione immobiliare una volta portata a termine la fusione fra città e contea, ed uno secondario che non è chiaro: a lei, ai suoi tanti burattini e purtroppo anche al lettore. I notabili locali, per fortuna quasi tutti imprenditori (siamo pur sempre in America), vengono circuiti, minacciati, blanditi ed in definitiva coinvolti in questo disegno. Tutti tranne uno, il costruttore Martin Probst: l’uomo tutto d’un pezzo, senza lati oscuri, soddisfatto della sua famiglia e del benessere che ha creato nella sua terra. Un repubblicano, fa capire il democratico Franzen mandandolo a partite di football. Lungo le pagine protagonisti e comprimari vedono messe in dubbio le proprie certezze, ma questa è una frase fatta che vale per qualsiasi storia, trascinandosi senza passione e senza appassionare. Evitiamo lo spoileraggio, anche perché tutte le vicende sono così forzate che la trama diventa quasi un di più, e andiamo direttamente al punto. I libri si possono anche abbandonare dopo 20 pagine, anche se noi non l’abbiamo fatto e siamo arrivati esausti alla 550. La vita è breve e si può sempre migliorare, come i successivi libri (Forte movimento, Le Correzioni, con cui siamo in zona capolavoro, e Libertà) di Franzen hanno dimostrato.

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