Spotify e la musica da non comprare

26 Febbraio 2019 di Paolo Morati

Fra Spotify, Deezer, Apple Music, eccetera, è possibile che in molti non si ricordino quando hanno acquistato l’ultimo disco fisico, vinile o CD che fosse. Dal canto nostro siamo comunque rimasti colpiti, un paio di giorni fa in metropolitana, dai manifesti che reclamizzavano l’uscita di un paio di nuovi album di cantanti italiani, di quelli che oggi girano in gran parte delle orecchie degli adolescenti, ormai nella sostanza orientati solo su quel genere che va per la maggiore, ossia trap e dintorni. Niente di male, per carità, il problema è che in bella evidenza oltre agli slogan di ordinanza l’invito non era (come logica vorrebbe) a “comprare” bensì ad “ascoltare”, e chiaramente sulla piattaforma di streaming più popolare, cioè Spotify, e che consente anche una fruizione gratuita, seppure in bassa qualità. E che, a scanso di equivoci, tra un vinile e l’altro usiamo anche noi.

La riflessione che abbiamo fatto è che se da un lato l’impressione è che si dia ormai per scontato che il pubblico non acquisterà mai non diciamo un CD ma nemmeno un singolo brano in digitale (lo ribadiamo, la pubblicità vuole che ascoltiamo), dall’altro tutto questo è un chiaro e triste segnale di resa di fronte all’inevitabile ridimensionamento a cui la musica intesa come il “mercato di una volta” sta andando incontro e (di conseguenza), alla possibile riduzione degli investimenti in future produzioni, sempre più legate all’immagine che a una, almeno sperata, qualità. Qualità che non vuol dire bella o brutta musica, concetto soggettivo, ma musicisti coinvolti, suoni ricercati, tempo dedicato alla creazione e realizzazione in studio…

Senza stare troppo a scomodare le epoche in cui un album di successo vendeva dieci volte tanto quelle di oggi, il vero problema dell’ascolto (che di fatto ormai fa anche le classifiche) rispetto all’acquisto deriva dalla facilità con cui oggi la musica può essere fruita con il minimo sforzo, e gratis, scatenando record che, pur con gli accordi commerciali con le piattaforme di streaming, non hanno tuttavia la stessa valenza di quando la musica si comprava con i sudati risparmi. Che era una scelta difficile e per questo più selettiva e ragionata rispetto ad oggi. Oltre ad essere consumata e vissuta nella sua completezza di forma e sostanza, compresa la lettura dei testi nel libretto. Insomma, vissuta in tutto e per tutto dal sacrificio dell’investimento al godimento del suono. Con il live che non era il fine massimo ma solo uno dei percorsi di una carriera, laddove oggi un disco o presunto tale è invece legato al fenomeno dei firmacopie (ossia tu compri e noi ti facciamo fare l’autografo o addirittura il selfie con il tuo cantante preferito, il CD poi magari finisce in un cassetto… ) e poi se possibile (gaudio massimo) anche al concerto.

Ecco, se certamente il digitale, la Rete e la conseguente facilitazione della pirateria hanno dato una botta al settore che oggi appare come aver sostanzialmente ceduto all’inevitabile, ci chiediamo che cosa passi tuttavia per la testa delle case discografiche che investono in pubblicità quando rinunciano a promuovere l’acquisto del proprio prodotto invitando ad “ascoltare ora”. Appunto, ora… e domani?

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