Spandau Ballet, la vita dopo Tony Hadley

24 Ottobre 2018 di Stefano Olivari

La notizia è che gli Spandau Ballet sono sopravvissuti alla separazione da Tony Hadley e anche abbastanza bene. Quasi nessuna band riesce a reggere la mancanza del frontman storico, al massimo qualcuna particolarmente di culto riesce a sostituire degnamente i morti (i Queen con Adam Lambert al posto di Freddie Mercury ci sono piaciuti) ma l’effetto nostalgia è sempre dietro l’angolo. Gli Spandau ieri sera al Fabrique di Milano hanno presentato al pubblico italiano Ross William Wild e l’impatto è stato subito buono, nonostante l’età media dei presenti fosse abbastanza alta, con i sessi in equilibrio nonostante qualcuno prevedesse il milfodromo, oltre al gerontocomio (molti i giovani, invece). Per noi, che li abbiamo visti per la prima volta dal vivo nel 1981 all’Odissea 2001 di via Besenzanica, è stata forse la ventesima volta con gli Spandau. E con questo sarebbe forse detto tutto, anche se l’articolo deve proseguire perché i maestri dell’informazione ci dicono che questo è il momento dei bookzine e del longform.

Arrivando al concerto, nella non facile periferia Est di Milano dove sono nati e cresciuti Zenga e Ambu, siamo per una volta rimasti favorevolmente colpiti dalla presenza dei bagarini napoletani: segno di successo, il bagarinaggio per gli Spandau nel 2018. Ma perché sempre napoletani? Evitato un parcheggio in strada a 10 euro, prezzo imbarazzante anche per Bel Air, e messa l’anziana Smart a casa di Dio, siamo entrati al Fabrique dove l’assenza di più livelli è sempre penalizzante per chi sta dietro. Ma la garra charrua l’abbiamo persa da tempo. E finalmente, venti minuti dopo il fischio d’inizio di Manchester United-Juventus, ecco gli Spandau in formazione quasi tipo: il leader ideologico, chitarrista e autore quasi di tutto Gary Kemp, suo fratello Martin al basso, John Keeble alla batteria e il tonicissimo polistrumentista (ma nell’immaginario di noi devoti soprattutto sassofonista) Steve Norman.

Più lui, Ross William Wild: un trentenne cantante da musical, poco somigliante a Tony Hadley (ed è un bene) se non in qualche atteggiamento, ma proprio per questo più credibile di qualunque imitatore. Diverso il timbro, come si è notato ovviamente di più nelle parti da crooner, ma degna di Hadley la presenza scenica, con qualche mossetta da giovane Elvis (interpretato fra l’altro in un musical a lui dedicato) e un’energia da Ricky Martin dell’epoca di Vuelve. Cosa c’entra tutto questo con l’estetica Spandau, direte? C’entra, perché pur non essendo un’icona anni Ottanta il ragazzo ha dimostrato di avere capito lo spirito della band, soprattutto nella parte centrale del concerto, quando sono state sparate cinque canzoni di fila di Journeys to Glory, l’album di esordio, e il nuovo cantante le ha eseguite in maniera quasi più new wave dell’originale, svegliando il pubblico.

La scaletta delle 21 canzoni, bis (Through the barricades e Gold) compresi ma senza contare l’intro strumentale di Gold, è piaciuta più a noi fan della prima ora che a quelli agganciatisi al treno con True, Parade e Through the Barricades (peraltro 3 album che con il senno di poi sembrano 3 greatest hits): ben 8 canzoni fra Journeys to Glory e Diamond, che danno il senso di una storia che parte addirittura dal punk per arrivare a quello che da noi veniva definito New Romantic (New Romanticism per gli inglesi) e che li ha condannati ad essere confrontati, da chi non li conosce, alle boy band dei decenni successivi quando invece il loro successo era tutto tranne che artificiale. Ancora in eccellente forma Steve Norman, gli altri vanno di mestiere con quell’aria da inglesi appena usciti alticci da un locale di Formentera. Ma i suoni puliti, con il minimo sindacale di elettronica, e il saper gestire generi diversi dicono che con questo nuovo innesto potrebbero avere in canna un disco nuovo, per quanto nel mondo di oggi produrre un disco nuovo serva a poco. Un disco da Spandau pre True, considerando le caratteristiche del nuovo cantante. Poi dal bar quelli che ‘Tony Hadley era un’altra cosa’ non saranno d’accordo, ma come si diceva negli anni Ottanta, forse anche a Islington (Gli Spandau tiferanno Arsenal? Bella domanda), ‘Piutost che nient l’è mei piutost’.

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