Il sogno realizzato di Kaizer Motaung
5 Gennaio 2017
di Paolo Sacchi
In principio fu il Subbuteo. L’indimenticabile gioco del calcio da tavolo è stato il primo a rendere concreto un sogno, quello di creare una squadra personale. Un immaginario club di cui essere presidente e allenatore, disegnandone maglia, calzoncini calzettoni. Certo ognuno ha una squadra del cuore, ma vuoi mettere farsene una propria? Sembra impossibile. Invece no: in Sudafrica un uomo ha saputo fondare un club nel mondo reale e portarlo pure al successo.
Kaizer Motaung è nato nel 1944 a Orlando West, quartiere di Soweto. Siamo ad una mezz’oretta di treno di Johannesburg, nella landa desolata che si estende verso sud-ovest, oltre gli abbandonati giacimenti auriferi. Piuttosto improbabile che in quell’epoca circolassero giochi da tavolo nelle case o in quei succedanei di abitazioni con muri e tetti di latta. Alla teoria, anche per mancanza di alternative, si preferiva la pratica, per strada. Per i più dotati c’era la possibilità di andare a giocare negli Orlando Pirates, la più famosa squadra della township. Kaizer è tra questi e a 16 anni arriva la fatidica chiamata. Negli anni Sessanta non è facile far carriera nel calcio in Sudafrica, ancor meno guadagnare bene in un paese che ha e – almeno fino al 1994 – avrà occhi, orecchi e soprattutto denari solo per il rugby e il cricket.
Tutto il contrario di quanto sta avvenendo negli Usa. Dopo il successo di un torneo estivo nell’estate 1967 si è passati all’azione con l’allestimento una lega pro. I soldi ci sarebbero pure w gli impianti quasi, con un maquillage a quelli del football americano. Mancano solo i giocatori. Far giocare gli universitari? Manco a parlarne. L’idea di noleggiare intere squadre direttamente da Europa e Sudamerica – come era avvenuto in passato – non è un’ipotesi percorribile. Qualche calciatore britannico inizia a far spola stagionale tra i continenti, ma è in Africa il terreno più fertile per provare ad ingaggiare giovani calciatori promettenti non ancora attirati dagli ingaggi europei. Iniziano i provini: Motaung intuisce al volo che può essere un’occasione unica. Si presenta ad una delle selezioni, nello Zambia. L’esaminatore è un tipo tosto: si chiama Phil Woosnam, un inglese che in seguito diventerà addirittura il commissioner della Nasl. Esame superato a pieni voti: la destinazione di Kaizer è Atlanta, dove sono si stanno formando i “Chiefs”.
La sua carriera prende il volo fin da subito. Diventa una stella dei Chiefs ed è eletto anche tra i migliori attaccanti dell’intera Nasl. Le soddisfazioni in America sono direttamente proporzionali alla fama – se non il mito – che si propaga a Soweto e dintorni. Kaizer è un uomo che ha idee chiare e coglie al volo ogni segnale, lo rielabora e lo fa proprio: tanto che alla prima occasione utile – siamo nel gennaio 1970 – decide addirittura di fondare una propria squadra di calcio. La chiama “Kaizer Chiefs”, prendendo a prestito il proprio nome di battesimo e aggiungendo il marchio del club di Atlanta che gli ha permesso di emanciparsi a livello professionale. Non è una squadra di Subbuteo ma un club vero e proprio, in cui investe i propri guadagni da calciatore.
Dalle parti di Commissioner Street siamo in piena era-apartheid: in centro città a Jo’burg si entra solo con il pass. Il calcio è lo sport dei neri e nelle università bianche a pochi viene in mente di praticarlo. All’interno di una grande comunità come quella di Soweto tutto il contrario: genera straordinaria passione ma anche rivalità e qualche invidia. Motaung le vive sulla sua pelle: I primi passi dei suoi Chiefs sono difficoltosi. Anche i Pirates non tardano a esternare i propri sentimenti verso il loro ex idolo, forse nella speranza che rivaluti la propria posizione e torni a casa. Invece niente: Kaizer in testa ha un obiettivo chiaro e definito: strutturare il club su un modello organizzativo “americano”, così come l’ha imparato a conoscere ed apprezzare ad Atlanta. Un progetto innovativo in generale, figuriamoci nel Sudafrica degli anni Settanta: talmente ambizioso da non essere preso sul serio da molti, fino a scoraggiare i giocatori che vengono mano a mano contattati per essere ingaggiati.
“Una morte breve e indolore” dei Chiefs è il pronostico di qualche detrattore. Previsione sbagliata: passo dopo passo si impongono sul campo e fuori. Il carisma di Motaung è un’arma ancor più letale dei suoi piedi sul campo da gioco: coinvolge partner e sponsor e il club fa un salto in avanti dietro l’altro, sia in termini di risultati sia a livello strutturale. Una crescita tale da farlo diventare – con i rivali di Orlando – decisivi nella fondazione della Premier League, competizione professionistica che definitivamente sdogana – anzi, lancia – il calcio in Sudafrica nel 1995.
Uno dei punti di forza dei Chiefs è il non essere legato ad una specifica comunità, per quanto di Soweto in particolare e l’area di Johanneburg in generale siano un riferimento non secondario. Questo aspetto gli permette di diventare presto una sorta di “seconda squadra” – se non la prima – per molti appassionati in giro per il paese. È un fenomeno visibile ad occhio nudo: quando giocano in trasferta, una buona metà delle tribune solitamente vengono occupate da sostenitori che indossano colori giallo-nero. Un’attrazione fatale per molti sudafricani, neri e bianchi, in cui l’appeal e la fama di Motaung, unita alla presenza di alcuni giocatori-bandiera interraziali come Doctor Kuhmalo e Neil Tovey hanno giocato un ruolo fondamentale.
Le vittorie e i titoli hanno fatto il resto, posizionando il club ai vertici del campionato locale non solo per i risultati sportivi. A dirla tutta, al FNB Stadium – già Soccer City – perfettamente posizionato tra Soweto e Johannesburg, a due passi dallo straordinario museo dell’apartheid, a parte i concerti, il rugby e manifestazioni religiose (sì, religiose), il tutto esaurito per il soccer arriva giusto per il derby contro i Pirati di Orlando. Le mastodontiche dimensioni dell’impianto non aiutano i sold-out, tuttavia allo stesso tempo non penalizzano troppo l’atmosfera anche una gara di medio cabotaggio come quella a cui abbiamo assistito, in cui i Chiefs ospitavano la formazione di Pretoria – sponsorizzata dal canale sportivo SuperSport.
Allo stadio lo spettacolo è soprattutto sugli spalti. Bande musicali suonano motivi allegri che il pubblico canta e balla durante la partita, sovrastando le immarcescibili vuvuzela. Sul campo il ritmo è vibrante: le difese sembrano non esistere; si attacca da una parte all’altra, incessantemente. Tranne nel caso di Tshabalala – che riconosciamo per le treccine ed è una specie di Hetemaj però con meno visione e qualità – e forse Malukela – seguito peraltro con viva partecipazione dalla simpatica fidanzata, seduta al nostro fianco – la palla viene gestita con lo schema numero uno: lanciando lungo, ovunque e comunque. Perso il conto dei tiri in porta, a dispetto poi del risultato finale che sarà di 1-1, se in campo le differenze qualitative sono evidenti almeno rispetto alle abitudini europee, appena riflettiamo su quello che avviene sugli spalti ci si riconcilia immediatamente. Forse non avranno esigenze o saranno competenti quanto pensiamo di essere noi, ma l’atmosfera, la partecipazione allegra, l’accoglienza, l’attenzione verso il pubblico – la gestione delle aree comuni e dei servizi, ad esempio – in parole povere, il marketing, inducono a pensare che se un sognatore ha volontà, capacità e idee chiare, se è capace di trovare il terreno in cui seminarle può realizzare in maniera compiuta i propri sogni: Kauzer Motaung ne è la prova.
Paolo Sacchi, da Johannesburg
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