Silicon Valley, il sogno californiano di Pied Paper

22 Dicembre 2021 di Stefano Olivari

Siamo stanchi di serie televisive pesanti e cupe, del resto ci rifugiamo nello streaming proprio per evitare dibattiti sul Covid o sul VAR, quindi volevamo recensirne una davvero divertente che abbiamo seguito con grandissimo piacere senza però mai parlarne. E la scelta è caduta su Silicon Valley, andata in onda su Sky dal 2014 al 2019 e tuttora presente sull’on demand: 6 stagioni, in totale 53 episodi meravigliosamente brevi (sui 25 minuti l’uno), senza sguardi intensi ma con tanta ironia sul mondo tech, su quello della finanza e sull’idealizzazione del sogno californiano.

Silicon Valley è la storia di una start-up immaginaria, Pied Piper (cioè Pifferaio), creata dal giovane protagonista, Richard Hendricks, che si sviluppa all’interno di un incubatore (in concreto l’abitazione di chi ha messo in piedi l’incubatore, Erlich Bachman) con il lavoro di Richard e di due programmatori geniali come Gilfoyle, canadese e satanista, e Dinesh, pakistano ossessionato dal mito del successo, sempre in lotta fra di loro ma inseparabili. Gli insulti fra Gilfoyle e Dinesh sono divertentissimi, quasi come il cinismo di Bachman quando si presenta a riunioni con finanziatori per farsi finanziare il nulla.

Pied Piper non è però il nulla, ma un software di compressione dati con una qualità migliore rispetto a tutti gli altri, che subito attira l’interesse delle big tech, che nella serie hanno i nomi di Hooli e Raviga, i cui fondatori, Gavin Belson e Peter Gregory, amano passare per innovatori visionari quando in realtà sono ormai giganti che acquistano piccole società con buone idee. Inutile raccontare tutta la storia e riassumere i mille cambi nella composizione dell’azionariato di Pied Piper, sfruttando i cavilli legali più assurdi, ma doveroso dire che fra le mille battute tutto è molto realistico.

A partire dai personaggi marginali, estremizzati ma nemmeno tanto: Jared l’entusiasta aziendalista superefficiente, Monica l’equilibrata che ragiona come noi spettatori (a partire dai 10 milioni di dollari di offerta iniziale, da prendere subito…), Laurie la manager robot anaffettiva, Jack Barker il manager bollito che vive di cose fatte vent’anni fa e di dogmi da business school, Jian-Yang il cinese copione che non guarda in faccia a nessuno, Russ l’investitore megalomane, l’avvocato Ron LaFlamme con il suo approccio concreto ai problemi e, soprattutto, Nelson ‘Big Head Bighetti’. Amico di Richard, intelligenza modesta ma grande bontà d’animo, Big Head stando fermo a bere milkshake beneficia delle faide aziendali diventando senza un vero perché dirigente milionario e poi, colpo di genio della sceneggiatura, rettore di Stanford.

La serie di produzione HBO si chiude, non diciamo come, con il gruppo di ragazzi all’inseguimento del sogno di un nuovo modello di Internet e sotto le battute i temi lanciati sono davvero tantissimi. Favolosa la puntata in cui si tenta di escludere l’editore di un sito di incontri gay per cristiani, non in quanto gay ma perché nella Silicon Valley l’unica categoria che è possibile attaccare è quella dei cristiani. Su un piano minore, altra trasgressione da Silicon Valley è il fumo, non le canne ma proprio la classica sigaretta: fa perdere subito punti, prima ancora di aprire la bocca.

In sintesi, una straordinaria satira sulla Silicon Valley che è anche in un certo senso un monumento alla Silicon Valley stessa, perché le grandi idee nascono da un ambiente culturalmente vivo anche se in gran parte popolato da cialtroni e approfittatori. Il discorso di Erlich al vicino di casa è perfetto, quando gli spiega che lai sua lurida villetta di uomo che non ha mai rischiato niente nella vita vale venti volte più di quanto l’ha pagata proprio perché ci sono ragazzi che in quell’angolo di California provano a cambiare il mondo. Molti falliscono, pochi riescono a vendere ad un pesce più grande, qualcuno il mondo lo cambia davvero.

Share this article