Settantotto da non celebrare

15 Aprile 2008 di Alec Cordolcini

1. Sul Guerin Sportivo della scorsa settimana c’era un bell’editoriale del direttore Matteo Marani dedicato alle celebrazioni dell’anno 1978. “Ognuno ha scelto un’angolazione”, scrive Marani, “per raccontare un anno fitto di avvenimenti. Ma in tutto questo ho letto pochissimo del Mondiale più sanguinario della storia. Mentre allo stadio Monumental si gioiva dei successi di Mario Kempes e degli altri dieci di Menotti, qualche centinaio di metri più in là, nei sotterranei dell’Esma (la scuola di meccanica dell’aeronautica, oggi museo della memoria), gli aguzzini riproponevano, in salsa sudamericana, le torture naziste. Non ho letto nulla, nemmeno una riga finora di quell’evento insieme sportivo e luttuoso. Si aspetterà il giorno di ricorrenza dell’inaugurazione di allora, immagino, per vedere qualche articolo di colore, diciamo così, e un rapido tuffo in quei giorni infernali. Per poi passare subito oltre, agli acquisti del Milan”. Noi che riusciamo a dormire alla notte pur non sapendo, e non importandocene nemmeno granché, se Ronaldinho vestirà la casacca rossonera, nel nostro piccolo abbiamo deciso di dedicare l’intera puntata di Radio Olanda a quei tragici eventi.
2. La differenza tra giustizia e misfatto misurava solo pochi centimetri alle cinque di pomeriggio del 25 giugno 1978 all’Estadio Municìpal di Buenos Aires, ultimo minuto della finale di Coppa del Mondo tra Argentina e Olanda, 1-1 il parziale. Un centimetro, quello che impedì al pallone calciato da Rob Rensenbrink di insaccarsi dolcemente nella porta argentina rimasta sguarnita. Il tiro finì sul palo, e per la seconda volta in quattro anni il sogno dell’Olanda di vincere la coppa del mondo svanì all’ultimo atto. I tempi supplementari furono un inutile prolungamento, giusto per regalare ulteriore gloria a Daniel Bertoni e permettere a Mario Kempes di vincere il titolo di capocannoniere; per i tulipani il Mondiale era finito su quel palo. Quella non era più l’Olanda del calcio totale, ne rappresentava solamente un dignitoso crepuscolo, sufficiente però per arrivare in finale e perderla per una questione di centimetri. O forse no. Forse anche se quella palla fosse entrata non sarebbe bastato e l’arbitro, un Sergio Gonella sfacciatamente casalingo, avrebbe trovato modo di annullare la rete (come dichiarò anni dopo il capitano dell’Argentina Daniel Passarella), oppure avrebbe prolungato la partita finché i padroni di casa non avessero pareggiato, oppure ancora ci sarebbe stata un’invasione di campo, o peggio.
3. Perché il risultato di quel Mondiale era scritto in partenza: l’Argentina doveva vincerlo. Lo voleva la giunta militare che aveva preso il potere un paio di anni prima grazie a un colpo di stato, lo voleva il Generale Videla per nascondere agli occhi del mondo un regime brutale costruito sulla censura e sulla corruzione, sulla tortura e sull’omicidio di migliaia di persone considerate “elementi sovversivi”. “Venticinque milioni di argentini giocheranno la coppa del mondo”, era lo slogan propagandistico lanciato dalla giunta; in realtà, come ha fatto notare Simon Kuper nel suo libro “Football against the enemy”, sarebbe stato più corretto dire che “Venticinque milioni di argentini pagheranno per la coppa del mondo”, visto che il Mondiale costò al governo la cifra monstre di 700 milioni di dollari per le spese organizzative, più altri 300 milioni per gli extra. Tra questi vanno probabilmente incluse le trentacinquemila tonnellate di grano cedute gratuitamente dal governo argentino a quello peruviano al termine della competizione, perché il 6-0 con il quale il Perù si era fatto battere dai padroni di casa (la famigerata “marmelada peruana”, della quale anni dopo il portiere Quiroga ammetterà le proprie colpe) andava in qualche modo ricompensato. 4. Il prepartita di quella finale lo ricorda Johnny Rep: “Faceva un caldo terribile, c’erano militari col mitra spianato in ogni angolo, e il nostro pullman impiegò un’ora a percorrere i venti chilometri che ci separavano dallo stadio perché le strade erano piene di gente che tirava sassi contro i vetri del conducente e picchiava i pugni contro il mezzo gridando ‘Argentina!, Argentina!’. No, l’atmosfera non era bella”. I padroni di casa, scortati fino alla finale da arbitraggi amichevoli, chiesero e ottennero dalla FIFA la sostituzione dell’arbitro designato per l’ultimo atto, l’israeliano Abraham Klein (che li aveva diretti nell’unica sconfitta rimediata nel corso il torneo, 0-1 contro l’Italia) con Sergio Gonella, la cui direzione a senso unico causò a fine gara, proprio per protesta contro il suo arbitraggio, la mancata presentazione degli olandesi alla cerimonia di premiazione e di Happel alla conferenza stampa. Ma in Olanda la delusione per la sconfitta fu di gran lunga inferiore rispetto a quella di Monaco di quattro anni prima. Non ci volle molto infatti per capire che i tulipani erano stati un semplice corollario; ci fossero stati al loro posto il Brasile, l’Italia o la Germania, non sarebbe cambiato nulla.
5. Il furto sportivo perpetrato ai danni degli olandesi non fu però nulla rispetto alla tragedia che si abbatté su di un intero paese. A cavallo tra il 1976 e il 1983, il periodo nel quale l’Argentina si trovò sotto il regime delle giunte militari (quattro per la precisione, la più famigerata delle quali composta dal triumvirato Videla-Massera-Agosti), secondo le fonti ufficiali scomparvero 9mila persone, un numero che arriva a toccare quota 30mila se si presta attenzione anche alle cifre fornite da altri organismi meno istituzionali del Conadep, la commissione appositamente predisposta dal governo argentino post-ditattura per far luce sul fenomeno dei desaparecidos. Migliaia di dissidenti (o presunti tali) scomparsi nel nulla, sedati e lanciati nel Rio della Plata, oppure brutalmente seviziati e torturati in qualche oscuro stanzino nel ventre di Buenos Aires, oppure ancora gettati nell’Atlantico con il petto squartato per impedire ai corpi di tornare a galla. Un museo degli orrori ottimamente descritto dal film “Garage Olimpo” di Marco Bechis (autore anche del meno riuscito “Hijos-Figli”, quest’ultima pellicola maggiormente incentrata sul tema dei figli di alcune “dissidenti” illegalmente affidati alle famiglie dei militari) oppure anche, per chi ama la lettura, in “I vent’anni di Luz” della scrittrice argentina Elsa Osorio. Per non dimenticare.
6. Chiudiamo con pensieri e parole sparse legate all’evento. “Allo stato attuale delle cose, l’Argentina non mi apre il paese più adatto in cui organizzare un Mondiale, né dal punto di vista della sicurezza per i giocatori, né da quella della regolarità della competizione”. (Johan Cruijff, che non prese parte al torneo). “Sotto il segno della pace, dichiaro aperti i Mondiali di calcio 1978” (Jorge Rafael Videla alla partita di esordio tra Germania Ovest e Polonia). “Due anni prima di questa manifestazione portarono via mio fratello, 17 anni, militante della gioventù peronista. Non è più tornato: lo hanno ucciso con sei colpi alla testa” (Roberto Moresi, ex calciatore del River Plate). “Mi trovai nelle strade di Buenos Aires in festa. Non mi sono mai sentita così sola perché sapevo che, se avessi chiesto aiuto in quel momento, nessuno mi avrebbe ascoltata. Mi condussero in un ristorante, per un po’ anch’io cantai e ballai, poi andai in bagno perché stavo per svenire. E lì, per sentirmi ancora una persona, presi il rossetto e scrissi sullo specchio: “Masera assassino”. Emilio Masera era il capo della Marina, quindi il principale responsabile della carneficina dell’Esma”. (Graciela Deleo, detenuta liberata per una notte dopo la finale con l’Olanda). “Prima della partita entrò nello spogliatoio Videla insieme con l’ex segretario di stato americano, Henry Kissinger. Non era mai accaduta una cosa del genere. Volevano intimidirci”. (Juan Carlos Oblitas, attaccante del Perù sconfitto 6-0 dall’Argentina). “A quei tempi credevamo che i desaparecidos fossero un’i

nvenzione della sinistra. Ci dicevano che eravamo complici: è una parola forte, ma in un certo modo abbiamo aiutato un regime criminale”. (Osvaldo Ardiles, centrocampista della Selecciòn campione del mondo). “E’ importante che il capo del governo ci appoggi” (Daniel Bertoni, attaccante della nazionale argentina, dopo un incontro ufficiale con Videla alla vigilia del torneo). “Prima del Mondiale e durante la manifestazione, nessuno della Nazionale venne a parlare con noi”. (Hebe de Bonafini, presidentessa dell’associazione che riunisce le mamme colpite dalla dittatura, a chi le chiedeva dell’incontro post-vittoria tra le Madri di Plaza de Mayo e il calciatore Julio Ricardo Villa). “Molti argentini oggi ci detestano e non riesco a comprenderne il motivo”. (Daniel Bertoni, anno 2004). NB: Le frasi dell’ultimo paragrafo, con l’eccezione di quella di Cruijff e dell’ultima di Bertoni, sono tratte dall’articolo “Tutta un’altra Historia” di Stefano Scacchi, pubblicato sul Guerin Sportivo numero 52 anno 2003.

Alec Cordolcini
wovenhand@libero.it

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