Cosa rimarrà del Sanremo di Gabbani

12 Febbraio 2017 di Paolo Morati

È come un mantra che si ripete all’infinito. Ogni anno. Quando inizia si critica, quando finisce si ama. Il Festival di Sanremo è a nostra memoria sempre stato così. E l’edizione numero 67 chiusasi la scorsa notte con la vittoria di Occidentali’s Karma (voto 7,5) di Francesco Gabbani non ha fatto eccezione. Un trionfo a sorpresa rispetto ai pronostici della vigilia che vedevano Fiorella Mannoia entrare già Papa in conclave, per poi uscirne cardinale (Che sia benedetta, 6,5) in seconda posizione, e il podio completato da Ermal Meta (Vietato morire, 8), già l’anno scorso tra i nostri preferiti e che dimostra quanto Sanremo sia ancora enormemente utile per far conoscere artisti veri per anni rimasti dietro le quinte, magari a fare il lavoro autorale per altri. Senza trovare percorsi da talent.

Certo lo spettacolo di Carlo Conti (7) con a fianco Maria De Filippi (8) non ha potuto evitare le consuete lungaggini e passerelle promozionali, o i comici (Crozza sottotono alquanto, 6 di stima), ma ha comunque tenuto banco (al di là dei 12 milioni di spettatori della finale) per cinque giorni con la musica lasciando in eredità alcune canzoni che sentiremo spesso in questi mesi. A parte i tre sul podio, che già stanno spopolando, attualmente abbiamo in loop Fatti bella per te (7,5) di Paola Turci e Spostato di un secondo (7) di Marco Masini, mentre difficilmente metteremo in playlist Nel mezzo di un applauso (4) di Alessio Bernabei – per noi il brano peggiore, ma il tracollo nelle preferenze è stato anche dovuto alla cover di Un giorno credi – e Nessun posto è casa mia (5) di una fin troppo cronometrica Chiara – che con l’intervento di Mauro Pagani ha cercato di ripetere l’effetto Arisa (purtroppo per lei La notte era di tutto un altro spessore). Molto meglio allora Michele Bravi (6,5), che ha presentato in punta di piedi, una canzone che non stravolge, e non sconvolge (Il diario degli errori), ma ti trasmette buone sensazioni.

Premio occasioni mancate a Sergio Sylvestre (6), debole la sua Con te considerate le potenzialità, e Michele Zarrillo (6,5), che ancora una volta ha lasciato la sua chitarra in camerino per poi tirarla fuori solo al Dopofestival. Mani nelle mani è una bella canzone, classica, cantata in modo perfetto, dove si sente la mano felice di Giampiero Artegiani, ma lui può osare di più anche su altri versanti. Detto questo, la domanda è se Sanremo ha ancora senso per la musica leggera, in un’epoca in cui i talent dominano le vetrine televisive cercando voci ma non autori, e a misurare la popolarità di un cantante non sono più le vendite di dischi (inesorabilmente basse rispetto ai tempi d’oro), bensì le visualizzazioni sul Web, gli ascolti sui servizi di streaming, e i like social.

Secondo noi sì, magari con meno presenza di siparietti televisivi e una formula più compatta e immediata, ma resta un canale promozionale importante, dove comunque non si può improvvisare. Offrendo un’occasione che Francesco Gabbani a 34 anni ha saputo (ma anche avuto la possibilità) di cogliere alla grande, e che ora lo attende all’Eurovision Song Contest. Per il resto chi si lamenta che al Festival non ci sono capolavori e canzoni memorabili, dovrebbe decidere di chi è la colpa: di Sanremo o della discografia? E magari suggerire in quale rassegna di nuovi brani (almeno una ventina) si raggiunge la perfezione pop, non solo in Italia ma nel resto del mondo.

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