Selfie, una questione di identità

29 Ottobre 2016 di Paolo Morati

SelfieL’ultimo, straordinario e apocalittico, video di Moby descrive la solitudine dei giorni nostri, con lo smartphone che è diventato l’oggetto centrale del pensiero, dove tutto passa e tutto si distrugge. Un disegno vintage quello che accompagna le note di Are You Lost In The World Like Me, con un ragazzino che si ritrova perso tra le strade in un esercito di esseri umani di qualsiasi età e sesso concentrati sullo schermo luminoso del proprio compagno di vita digitale, in un gioco di contrasti che rimbalzano tra antico e moderno, dramma e apparenza. Un mondo dove solo l’immagine in megapixel con i suoi effetti e la conversazione fatta di emoticons è capace di trasformare una vita disperata in meravigliosa, una prigione dorata all’interno della quale è possibile scorrere con il dito per scegliere apparentemente con chi stare e andare alla ricerca di suicidi da filmare e condividere. Un destino dominato dalla legge del selfie, con l’emblemattica bellona prosperosa che si mette in posa sullo sfondo di un incendio.

Ecco, il Selfie, un tema analizzato nel breve omonimo saggio scritto per Il Mulino dal professore di Psicologia Giuseppe Riva, con il sottotitolo “narcisismo e identità”. Un testo di aiuto per analizzare questo fenomeno dal punto di vista sociale e psicologico, percorrendo la storia della nuova forma di autoscatto, facendo paragoni con quest’ultimo, uniti a una serie di nozioni tecnico cronologiche per capire a che cosa ci troviamo di fronte nell’era di Instagram, Whatsapp e Facebook. Dove il selfie non è solo una fotografia che costruiamo, scattiamo e mostriamo agli altri ma anche uno strumento che chi deve vendere qualcosa può analizzare per indirizzare pubblicità e proposte. Si parte quindi dagli albori del disegno del volto, con citazioni di Plinio il Vecchio che definiva tre funzioni del ritratto – commemorativa, didattica e celebrativa – e che possono ritrovarsi anche nel selfie, per generare rispetto ed emulazione. Si passa poi per il linguista francese Roland Barthes, che delle foto individua le due cose che vi si possono vedere: studium (significati e comportamenti) e punctum (sensazione emotiva). Ma che può andare oltre il narcisismo, perché come spiega Riva si è contemporaneamente oggetto e soggetto, laddove il protagonista della mitologia greca manca delle due dimensioni simultanee.

Ma le cose si fanno ulteriormente interessanti quando si prende in mano la matrice di Johari disegnata nel 1955 dagli psicologi Joseph Luft e Harry Ingham, che modella i quattro livelli in cui si articola il livello di consapevolezza tra io e me e tra soggetto e altro, e si arriva a capire che il selfie è uno strumento per definire quello che siamo o vorremmo diventare. Qualcosa che però non riguarda solo gli adolescenti, come dimostrano gli studi citati nelle pagine successive con distinzioni tra uomini (più orientati al narcisismo) e donne (all’autoggettivazione). E dove il selfie non presenta il soggetto in modo totale, bensì parziale e particolare, mettendoci anche di fronte a tre tipi di paradossi, e a fenomeni come il sexting. In definitiva, mentre emergono problematiche di identità sociale e virtuale, la conclusione di Riva è che i selfie sono una medaglia dalle due facce, positiva e negativa: “comprendere, strutturare e costruire la nostra identità… ma anche assumere identità sociali che non ci rappresentano e ripetere comportamenti stereotipati e vuoti”. Insomma qualcosa da imparare a usare, e saper limitare. Con l’augurio, tornando al video di Moby, di non fare la fine dei lemmings mentre siamo intenti a guardarci o a guardare gli altri…

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