Calcio
Se questo è un campo neutro
Stefano Olivari 06/05/2010
di Stefano Olivari
Tutto si può dire sulla più nervosa e cattiva finale di Coppa Italia che la storia ricordi, tranne che sia stata giocata in campo neutro: l’Olimpico non è Wembley, l’Italia non è l’Inghilterra, l’inno della Roma all’entrata non è quello di Mameli, Beretta non è un presidente di Lega ‘adeguato’ quando si tratta di prendere decisioni coraggiose.
Non ci è scappato il morto, ma soltanto il consueto accoltellato (e l’altrettanto consueto cameraman picchiato, con il contorno di undici arrestati e altri denunciati), solo perchè il dio del calcio veglia su di noi e la polizia funziona meglio di altre realtà del settore pubblico italiano. Il resto sarebbe riproposizione tautologica di quello che 12 milioni di persone (40% di share) hanno visto come noi, sottolineando a seconda del proprio tifo gli episodi controversi: dal fallo da rigore di Samuel su Toni alla quantità di romanisti esentati dal secondo cartellino giallo. La stella polare di Rizzoli è stata quella di ogni carrierista: evitare rogne, quindi rigori ed espulsioni (si è arreso solo nel finale al calcione di Totti), perchè un fischio sbagliato in buona fede ti mette nel mirino più di qualsiasi ‘non fischio’ sbagliato. Vuoi tutelare la squadra in trasferta? Sorvoli sulle perdite di tempo e sui giocatori che si rotolano per terra. Vuoi dare una spinta a quella in casa? Fischi venti punizioni dalla tre quarti, uno di straccio di colpo di testa salterà pure fuori dal mucchio. In un clima così non si poteva che arbitrare così, anche se Burdisso, Perrotta, eccetera.
A Mourinho rimane una Coppa Italia che dà una soddisfazione da Nou Camp, ma senza spruzzini dementi-provinciali e con l’inno dell’Inter suonato dagli altoparlanti a fine partita (come a San Siro si era sentito quello giallorosso con la coppa sollevata dalla Roma). Tanti piccoli segni di sportività che si sono intravisti in una guerra, dall’occhiolino fra Totti e Materazzi (due ai quali non si pensa, quando c’è da fare un esempio di sportività) al saluto semi-cordiale fra gli allenatori passando per lo stile di giocatori migliori della suburra che dovrebbero rappesentare (in positivo si è distinto De Rossi). Chi soffiava sul fuoco è stato servito, parlamentari cialtroni in testa: tutti quelli dei Tizia Club Montecitorio andrebbero presi a calci, non metaforici, da quel povero scemo che ha tentato di aggredire Cambiasso e che si distingue da loro solo per il minore numero di opportunità.
Carne da dibattiti sarà il calcione di Totti a Balotelli, che unirà per sempre nello stesso fotogramma due personaggi che molti amano odiare. Essere trattato da vecchia gloria, con Lippi in tribuna, non ha fatto entrare in campo tranquillo il capitano della Roma che al di là di una punizione pericolosa e di un buon assist le ha provate tutte per farsi espellere e alla fine c’è anche riuscito. Ridicola la giustificazione di una provocazione del bresciano quattro mesi fa, se tutti ragionassero così al prossimo derby Radu dovrebbe entrargli diritto sulle gambe dopo dieci minuti (per non parlare di quello che avrebbe dovuto fargli Legrottaglie per la ‘manina’). Il peggio però sta per arrivare: la sociologia del tottismo è già schierata per difendere il proprio idolo, secondo l’assioma che Totti rappresenta Roma (speriamo di no).
La sfortuna di noi comuni mortali, diciamo pure di noi sfigati che viviamo le vite degli altri, è che paghiamo malefatte e parole di magari vent’anni fa senza avere la possibilità di risolvere tutto con 90 minuti giocati con intelligenza. Per questo invidiamo Mario Balotelli, che all’Olimpico pur senza essere ispirato ha disputato un tipo di partita che a Barcellona avrebbe costretto a minori eroismi il doppio muro di Mourinho. Ha difeso il pallone, guadagnato falli, addirittura aiutato Chivu sulla sinistra (con l’eccezione di una stringa allacciata mentre la Roma batteva un angolo), ha in definitiva fatto il suo. Il possibile, ma al momento non probabile, addio di Mourinho potrebbe farlo diventare almeno un minimo tifoso dell’Inter.
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