Scrittore di canzoni: intervista a Mario Castelnuovo

5 Giugno 2014 di Paolo Morati

Mario Castelnuovo

Quando ci capita di parlare di Mario Castelnuovo con amici e conoscenti il più delle volte vengono citati brani come Sette fili di canapa e Nina, ormai risalenti a una trentina e oltre di anni fa. Il suo è del resto il tipico caso di cantautore che, assaporato il successo, ha preferito rimanere coerente a un’idea di musica lontana dai riflettori e dal giro che appare. Proponendo negli anni una dozzina di album importanti e variegati, il cui più recente Musica per un incendio (già recensito su Indiscreto) è uscito il mese scorso. Qui di seguito il resoconto di una lunga chiacchierata che ci ha permesso di approfondire con Castelnuovo alcune tematiche tra vita, canzoni, divertimento e libertà. Nel vero senso della parola.

Sono passati circa otto anni dal tuo ultimo album di inediti, all’epoca accolto con grande favore dalla critica: Com’erano venute buone le ciliegie nella primavera del ’42. Un disco che ruotava attorno a brani molto musicali e pensa(n)ti come L’Ave Maria di un Clown e Novena del Porto. Cos’hai fatto nel frattempo, come nasce invece il nuovo lavoro Musica per un incendio e quali sono i temi che hai voluto mettere al centro?

Ho cercato di darmi da fare, di credere fermamente in questo mestiere anche quando – come succede in tutto il resto della nostra società – certe cose ti deludono. Nel 2008 ho pubblicato il mio primo libro di narrativa (Il badante di Che Guevara, n.d.a.) e ora sto scrivendo il secondo. Nel frattempo ho continuato a suonare, tentando di ritagliarmi gli spazi più idonei per farlo, e a scrivere canzoni: ne avevo pronte tantissime ma alla fine non sono entrate nel disco che invece ho costruito nel giro di tre mesi. Mi succedeva lo stesso quando studiavo all’Università: fra un esame e l’altro anche se era disponibile una marea di tempo mi riducevo a studiare sempre gli ultimi quindici giorni… e la storia non è per nulla cambiata. In generale sono canzoni arrivate non in base a una costruzione lenta ma a un momento quasi catartico.

L’ascolto dell’album dimostra una ricerca approfondita dal lato testi così come da quello suoni. In particolare è un disco dove non esiste sostanzialmente l’uso di campionamenti e sintetizzatori. Una scelta impegnativa e che sembra aver pagato in termini qualitativi…

Certamente sono stato gratificato dal fatto che in decenni di onesta carriera ho conosciuto tanti amici musicisti che nel frattempo sono diventati dei capiscuola nel proprio strumento. Quindi ho cercato di richiamare tutti quanti quelli con cui ho lavorato ottenendo una adesione commovente, a volte anche gratuita quindi ancora più commovente… (ride, n.d.a.) e li ringrazio tutti. Senza di loro il disco avrebbe avuto altri connotati. E proprio perché, forse per la prima volta, ho avuto a disposizione un ventaglio di possibilità sonore così generose, ho ascoltato suggerimenti e consigli di ciascuno, cercando per ogni pezzo di miscelare le loro idee con le mie.

Mi hanno colpito alcuni versi delle nuove canzoni che vorrei commentare insieme…’I poeti sono cagionevoli, fragili, vanno in giro con il culo timido, romantico’… (A Certaldo fa freddo)

Perché è così… Intanto il fatto in sé stesso è vero. Petrarca prima di morire lasciò il cappotto a Boccaccio dicendo a chi doveva portarglielo: “Date a quel pazzo di Boccaccio il cappotto che gli farà comodo, perché a Certaldo fa freddo”. Forse perché faceva veramente freddo oppure perché Boccaccio era così male in arnese da non potersene permettere uno. Poi ho aggiunto la figurina classica del poeta, colui che deve essere stravagante per forza, romantico per forza, solitario per forza un po’ come nell’Ottocento, quando i pittori dovevano avere un cappello in testa di un certo tipo.

‘Se l’amore cade io so che ricresce di notte, come succede ai bambini coi denti da latte…’ (Mandami a dire)

Il mondo dei bambini l’ho ripreso più volte nelle mie canzoni. Credo esistano tre categorie di persone più fragili delle altre: i vecchi, i bambini e gli artisti, compresi quelli ‘stronzi’, che sono comunque fragili e più incasinati con sé stessi… e più millantano e più sono fragili. Da quando, sei anni fa, sono diventato babbo ho scoperto un mondo che mi apparteneva solo di rimbalzo e mi si è aperta una finestra che, al di là della retorica, è una fonte di grandissima ispirazione. I bambini, così come i vecchi e gli artisti. In generale, la poesia secondo me non è soltanto quella che ognuno di noi esprime sedendosi e scrivendo ma soprattutto quella che ognuno di noi può sorprendere nelle parole di qualcun altro e firmare una frase che quel qualcun altro ha detto senza accorgersene. È quella la fotografia di una poesia. E io faccio soprattutto questo. Io sono fotografo delle cose che mi stanno intorno.

‘Ora è per sempre, per sempre è solo ora, diglielo ai devoti dell’eterno…’ (Annie L’Amour)

Io ritengo di essere una persona che alla spiritualità crede e ci pensa tutti i giorni però senza il dazio delle religioni. Perché credo le religioni siano state causa di molte cose civili ma anche di altrettante incivili. Quando il mondo antico non aveva religioni monoteiste era un mondo che, nonostante le guerre, accoglieva i diversi e li integrava. Cioè il pantheon di qualcuno era pieno di dei nuovi che partecipavano allo stesso banchetto. Da quando sono cominciate le religioni monoteiste ci sono stare le guerre di religione, per cui mi viene il sospetto che una certa compartecipazione nel danno ce l’abbiamo anche loro. Al di là di questo, so che tutti noi siamo fatti di materia e cose concrete ma anche di moltissimo spirito, qualcosa che può anche infiammarsi. È però davvero un’epoca che si infiamma per cose irragionevoli e banali. Prima allo stadio ci si andava per divertirsi, oggi per scannarsi. Questo ci dice quanto sia totalmente banale la società odierna. Io mi auguro che Musica per un incendio sia l’incendio per le passioni intese a 360 gradi.

Tuo padre era pittore ed è ritratto sulla copertina dell’album Sul nido del cuculo. Che cos’hanno in comune (se hanno qualcosa) la pittura e la musica?

L’immagine. In questo senso credo molto nelle canzoni, una struttura completamente diversa dalla poesia e dalla musica intesa come materia a sé stante. La canzone deve essere attrazione fatale tra musica e parole. E più vado avanti anagraficamente e più penso che le canzoni siano le uniche forme di creatività in grado di regalarti un momento del passato. A un certo punto ascolti un piccolo frammento di una canzone e ti viene istantaneamente non solo da pensare a un ricordo lontano, ma si prova fisicamente lo stesso stato d’animo. È questa la grande potenza delle canzoni, che saranno in alcuni casi canzonette, ma se si riesce a porgerle in modo autonomo hanno una grande forza. Il problema di questo periodo è che oggi, quando parte una canzone, non ti accorgi più di chi potrebbe essere mentre una volta quando iniziava Sapore di sale l’arrangiamento di Morricone lo riconoscevi subito. Viviamo un appiattimento totale e non solo nella musica, anche nell’editoria. Ma evidentemente la nostra cultura è ormai solo televisiva, passa tutto di lì, se passa, e se non vi passa non è importante. Siamo stati depositari dell’arte della creatività del paesaggio più bello del mondo, potevamo esserne custodi per avere anche dei ritorni economici e invece siamo dei detrattori del nostro stesso mondo. Avendo a disposizione un paese come il nostro continuiamo ancora a fare le battaglie, come se erigere un piccolo confine bastasse nel 2014 a farti vivere meglio. È stato fatto nel periodo medievale dei Comuni e funzionò poco, oggi la vedo dura. Dovrebbe esserci una grande presa di posizione di tutti e dire “adesso facciamo veramente sul serio”. Se leggiamo un libro cerchiamo di indicare quale, se ascoltiamo della musica indichiamo quale. Perché se è vero che l’era di Internet è molto democratica spesso confondiamo la democrazia con il caos. Dentro Internet chiunque si scopre poeta, chiunque si scopre pittore, chiunque si scopre musicista e c’è un ingorgo di nettezze urbane pazzesche. Internet rimane uno strumento di civiltà, ma l’uso che se ne fa è per solitari aggregati. Se l’amicizia la puoi misurare a numero di persone che ti dicono sì siamo messi male… e infatti siamo messi male.

Restando in famiglia, come nasci e che tipo di bambino e ragazzo sei stato, e che studi hai fatto?

Pieno di tante cose, allora così come adesso. Non mi ritengo né intelligente né colto, ma istintivo sì, quindi curioso, il che mi ha istigato parecchie volte alla conoscenza. Ringrazio di questo la natura, mia madre, qualcuno… perché mi permette di passare da Messi e Cristiano Ronaldo a Schopenhauer. Credo ci sia molto ancora da scoprire e da seguire e che fossilizzarsi su un unico argomento non sia cultura bensì ossessione. Ho frequentato Lettere Moderne con indirizzo Antropologico e Etnomusicologico, perché mi è sempre piaciuto quello che si cela dietro le tradizioni dei popoli, ricavando molte cose del presente. Al di là delle processioni, che sono affascinanti anche nel loro kitsch per scoprire chi eravamo prima e chi tentiamo di diventare. Ero molto appassionato di calcio, quando pretendevo anche di saperlo giocare. Poi ho capito che non ero Rivera, ma comunque lo seguo. Una buona partita di calcio è come un film di Totò o di Alberto Sordi, ossia di quegli spettacoli all’interno dei quali non c’è bisogno di restare attenti e in profondo silenzio. Una partita di calcio è uno spettacolo teatrale, qualcosa che andrebbe visto con grande partecipazione ma anche grande ilarità. Essendo nato a Roma, a Trastevere, non posso non essere tifoso della Roma.

Quando hai capito che la tua strada era quella della canzone e come hai mosso i primi passi fino alla vittoria con Oceania al concorso di Domenica In che poi ti aprì le porte del Festival di Sanremo?

Mi sostentavo facendo i ritratti per le strade. Facevo il disegnatore, era una cosa molto bohémien e anche altrettanto precaria. Nel frattempo scrivevo anche canzoni. C’era in quel periodo la possibilità di partecipare a cenacoli, c’era la IT di Vincenzo Micocci che era il serbatoio della RCA, lì mi presentai un giorno e nacque questa storia.

Il disco è stato realizzato in collaborazione con Lilli Greco, recentemente scomparso, uno dei nomi storici dello scenario italiano al quale si deve il lancio di diversi nomi importanti. Che cosa è cambiato per chi inizia a fare musica rispetto a quando hai esordito e come è cambiato oggi il concetto di gavetta? Che ricordi hai dei tempi della It e quanto è diverso l’attuale mondo della discografia?

Lilli lo conobbi subito, una persona al di sopra delle parti e che dedicò la sua vita alla ricerca di canzoni di un certo tipo, infatti strappò dalla scrivania di avvocato Paolo Conte e lo costrinse a suonare e a cantare intravedendo qualità che non si aspettavano. Il fatto che lui abbia voluto con tutte le sue forze partecipare a questo disco, che è stato il suo ultimo, me lo fa diventare ancora più prezioso. Oggi non ci sono i luoghi della gavetta, al bar della RCA passavano Morricone e Battisti… ma anche altri venti ragazzi che si scambiavano informazioni, si lavorava insieme su testi e musiche. Dopo la nostra generazione faccio molto il tifo per la nuovissima generazione, quella dei ventenni, mentre quella dei quarantenni se è musica d’autore allora mettiamoci dentro tutti. Nel senso puro di canzone d’autore. Oggi si può fare tutto, il talent show e il giorno dopo il Primo Maggio e arringare la folla. Se lo facevi qualche anno fa ti ‘picchiavano’ chiedendoti: sei quello di ieri o quello di oggi? Adesso si può fare tutto e il contrario di tutto. È la meno idonea questa epoca, per far nascere delle creature artistiche. C’è stata tanta plastica, ovviamente per colpa degli autori ma anche per colpa di una società che ha fomentato la plastica. E la vedi anche in altri settori: cinema, libri. Si è massificato il concetto di cultura e se ne vedono i risultati. La parola cantautore viene applicata a tutti, invece ha una sua sostanza.

Sei salito definitivamente alla ribalta nel 1982 con Sette fili di canapa e l’omonimo album. Due anni dopo è arrivato il grande successo di Nina. All’epoca avevi tutte le caratteristiche giuste per sfondare in termini di immagine (ricordiamo addirittura una copertina di Ragazza In a te dedicata…) e voce, e non solo di repertorio, decidendo però di rimanere su una proposta di non facile presa, poco commerciale e molto personale, a cominciare dal disco successivo È piazza del campo. Puoi spiegarci le ragioni di questa scelta?

Con l’album di Nina ho capito e toccato la parola bellissima e pericolosissima che si chiama successo. Subito dopo mi chiedevano Nina 2 e io ho fatto il contrario per smarcarmi da qualcosa che non mi appartiene. E da quella volta in poi non sono più ricomparso in una copertina, ma con tutto il rispetto per chi lo fa dico solo che mi piacerebbe essere il più famoso sconosciuto della storia. Quello che faccio lo amo moltissimo ma vorrei che fosse dissociato da quello che sono. Tu puoi amare un autore… Kafka mi risulta che fosse un uomo palloso, terribile e cupo ma quando lo leggi qualcosa in più della vita la capisci. Questa dissociazione la faccio da molti anni, non è detto che non compaia e non comparirò da qualche altra parte. Dico solo che quell’uso che la discografia voleva fare di me all’inizio non ho saputo più accettarlo. Ho pagato da tutti i punti di vista, non ultimo quello economico… ma volevo continuare a cercare e continuo a farlo ancora adesso. Forse è una incosciente pretesa ma mi diverto solo in questo modo. Capisco che questo nuovo disco non abbia forza promozionale e una macchina potente dietro, ma una casa discografica molto seria e propensa ad aiutarmi. Per paradosso vorrei che questo lavoro registrasse un bel risultato soprattutto per quello che rappresenta e tracciasse un nuovo sentiero per tutti coloro che scrivono e amano dischi così.

In tutto questo non nascondi però di volerti divertire, un termine che però ha due accezioni. A cominciare dalla sua origine latina dell’andare in direzioni diverse…

Sono esattamente le due accezioni che intendo. Io penso che sia doveroso avere il coraggio e la voglia di sperimentare sempre, in un mercato pieno di impiegati delle canzoni. Io non pretendo di essere migliore o peggiore, ma diverso da loro questo sì. Il mio tentativo è sempre stato quello di chiamare gente che non aveva niente a che vedere con la musica, come Athina Cenci o Lina Wertmuller, oppure chiamare in questo disco Bianca Giovannini la ‘Jorona’, che è una sorta di reginetta dell’underground romano proprio perché ascoltandola ho capito che quella canzone (Trasteverina) l’avrebbe cantata meglio di me. La curiosità è tutto, nella vita. Il divertimento e la curiosità dovrebbero essere alla base di tutto. Chiaramente per curiosità non si intende il gossip. Se la signora di fronte ha due o quattro amanti non mi interessa più di tanto. Se però sviluppa pensieri e cose che possano incuriosirmi è un’altra cosa. E poi il divertimento e la curiosità per tutto che abbiamo intorno. Viviamo in un paese straordinario, che aspetta solo che ce ne accorgiamo.

Il tuo discorso musicale ha sempre offerto un’immagine di coerenza pur andando a esplorare suoni e arrangiamenti più vari. Mi viene ad esempio in mente l’album Castelnuovo del 1993 ma anche il già citato Sul nido del cuculo o Signorine Adorate. Qual è il valore delle parole rispetto alla musica (e viceversa) per una canzone e che cosa è più decisivo perché riesca effettivamente a farsi ascoltare e suscitare l’interesse del pubblico? Scrivi prima i testi o la musica?

Di solito scrivo prima la musica, però è molto complicato spiegare che la prima vera intuizione è su un tema, prima che musicale o a livello di testo. Se mi colpisce una cosa e penso che mi piacerebbe scrivere una canzone su quell’argomento è lui che plasma la musica prima di tutto e poi il testo è una conseguenza non tanto della musica bensì di quel pensiero iniziale. Una canzone è un’attrazione fatale tra musica e testo, puoi avere i più belli del mondo ma a volte senti che ci sono delle cose che insieme non funzionano. L’attrazione c’è ma non si è compiuto l’atto e le due cose non si sono sposate bene. La canzone perfetta è quando l’attrazione tra queste due situazioni risulta anch’essa perfetta.

Citi spesso la Toscana. Si pensi a Fiore di Mezzanotte, 160km da Roma, Gli occhi di Firenze e ovviamente È piazza del campo, nonché nell’ultimo disco A Certaldo fa freddo. Di fatto hai radici senesi per via di tua madre mentre sei nato a Roma, mentre tuo padre è lombardo del Lago Maggiore. Che cos’hai preso di queste differenti origini e come hanno influenzato la tua persona e conseguentemente le tue canzoni?

Mi hanno influenzato per come è la caratteristica di queste terre. Il Lago Maggiore di mio padre mi ha dato una parte molto introspettiva, mentre Roma e la Toscana mi hanno salvato perché è importante essere introspettivi ma bisogna stare molto attenti a non diventare cupi.

Una volta ti sei definito uno scrittore di canzoni. Cosa intendi con questa espressione?

Tutti quanti hanno in testa un aggettivo: musicista. Ma non è la realtà perché molto spesso quelli che sono scrittori di canzoni non sono grandi virtuosi dello strumento. Io posso dire di suonare abbastanza bene la chitarra ma non sono certamente Segovia. Lo scrittore di canzoni non deve necessariamente essere un musicista, ma saper scrivere melodie che stanno bene con sopra alcune parole. È un lavoro a parte, e dobbiamo essere più umili e definirci per quello che siamo.
Certamente coloro che riescono a scrivere canzoni importanti generano un grande patrimonio per la società. Poi però si scopre che se vai dal meccanico, entri dal panettiere, al supermercato si sente sempre un sottofondo musicale. Oramai ce n’è talmente tanta, di musica, che non la distinguiamo più. È l’epoca dell’overdose di tutto e non riusciamo più stabilire il confine tra una cosa che gradiamo sentire oppure no in quel momento, perché comunque dobbiamo sorbircela. Pensiamo a certi network importanti che passano ogni giorno lo stesso brano. Non è la più gettonata ma quella per cui è stato pagato un forfait promozionale. La famosa radio libera ormai non so se, come e quando è ancora libera.

Tornando a Musica per un incendio, chi è e cosa rappresenta ‘Johnny Di Tacco’ che compare nel bel mezzo del disco cantando Torna a casa Lassie?

Torna casa Lassie è una cosa da dopocena… oggi si ha il dovere e il privilegio di poter mettere in un disco quello che si è, nel bene nel male, nel corretto e politicamente scorretto. Quindi il prima della cena, il durante e il dopo. Altrimenti sono canzonette che fischietti e basta ma… se una facesse sorridere, una ridere e una far pensare sarei più contento.

Puoi darci infine la tua definizione di libertà?

Essere se stessi… e ti pare poco? E non sempre ci si riesce, ovviamente, soprattutto facendo certi mestieri. Sai quante volte mi sono sentito dire “e dai Castelnuovo, prendi la scorciatoia!”. Ma a me non va, ho quasi l’età della ragione e devo dire necessariamente quello che penso… e poi ho una bimba e sto diventando ‘serioso’. Per questo disco mi auguro che ci sia il passaparola, così come i libri che ho amato di più son appunto quelli che ho scoperto e che altri mi hanno fatto scoprire… mi piacerebbe che accadesse la stessa cosa con Musica per un incendio.

Share this article