Cosa resterà di Andy Schleck e Cunego

25 Novembre 2014 di Simone Basso

Cosa resterà, nel ciclismo, degli anni Zero? Quel periodo di transizione – difficile – tra la liberalizzazione selvaggia di Epolandia e l’evo del Passaporto Biologico con relativa frenata… Abbiamo trovato melanconico, a inizio ottobre, l’accavallarsi di due notizie: il ritiro di Andy Schleck e l’addio alla Lampre, e il relativo annuncio della firma con la Nippo-Fantini, di Damiano Cunego. Grandi talenti accomunati nella loro parabola sportiva: precoci, vincenti, ma che hanno esaurito piano piano lo smalto e le ambizioni antiche. Corridori che, malgrado un palmarès qualitativamente sontuoso, alla fine della corsa lasciano il rimpianto di non aver realizzato appieno il potenziale. O che forse, all’incipit, avevamo sopravvalutato.

Era difficile non riconoscere, nei gesti, la classe cristallina di Andy Schleck: scalatore filiforme, elegante, che nelle giornate di grazia pareva procedere levitando. Figlio di Johny, a cavallo fra Sessanta e Settanta compagno di Janssen, Anglade, Ocana, Rosiers, e fratello di Frank, presenza all’inizio rassicurante, poi – col passare del tempo – una zavorra psicologica niente male sulle spalle di Andy; quello più forte e – ahilui – più fragile. Di sicuro uno come Guimard, che seguì il minore degli Schleck nelle categorie giovanili (al Vélo Club de Roubaix Lille Métropole), i purosangue li ha sempre riconosciuti. Ebbene, Schleckino fu inserito da Cyrille in un poker straordinario: Hinault, Fignon, Lemond e lui.

Doveva ancora compiere ventidue anni quando si rivelò al Giro 2007; opposto a quelli della pipì degli angeli (Di Luca docet), il cucciolo strabiliò. Schleck al meglio – giovanissimo e incosciente – ci diede l’illusione di un fuoriclasse dalle possibilità infinite. Il forcing a Pechino 2008, che solo quel Cancellara rese vano, i venti chilometri di fuga (vittoriosa) alla Doyenne 2009, staccando sulla Roche aux Faucons Philippe Gilbert, mica Pinco Pallino. I numeri in montagna contro il Contador d’annata e l’impresa solitaria (al Tour 2011) nella valle della Guisane, dall’Izoard al Galibier. Da quel pomeriggio Schleckino cominciò la discesa: il primo segnale, inquietante, alla Vuelta 2010, la sera che Rijs lo mandò a casa per una scappatella alcolica. Il lussemburghese, quella volta in Spagna, si presentò senza voglia e gambe: dal 2012 sarebbe diventato lo standard abituale di Andy, stessa generazione di Nibali, gestione diametralmente opposta del (generoso) dna. La mancia furono gli infortuni, la frattura del bacino al Critérium de Dauphine 2012 e l’incidente di quest’estate a Londra, alla Festa di Luglio: ginocchio destro sbranato, col crociato anteriore e collaterale danneggiati gravemente. Malgrado le dimostrazioni di classe, e una Grande Boucle a tavolino, i conti non tornano. Rimarrà l’impressione di un atleta magnifico ma inespresso: un hardware clamoroso, limitato da un software mediocre.

L’odissea di Cunego è stata simile, pur proveniendo da un mondo differente: pure qui, l’esplosione in giovane età, amministrata così così, a lungo andare si è rivelata controproducente. Il Piccolo Principe, che si palesò sul proscenio nella sua Verona aggiudicandosi l’iride juniores (1999), è stato il penultimo campione espresso dal (vecchio) sistema italiano. Quell’universo che oggi arranca, rincorrendo britannici, australiani, francesi, tedeschi, qualche lustro fa dominava la scena. Damiano, quasi al pari di Pozzato, fu preservato dalle forche caudine dell’attività under 23 dell’epoca: solo un paio di anni – alla Zalf Euromobil Fior – e il salto nei pro. Col senno di poi, una conferma della saggezza di quella decisione: a rileggere adesso gli ordini d’arrivo del tempo, nei cosiddetti dilettanti, c’erano nomi da far rabbrividire…

Il Giro 2004, vinto spodestando il capitano Simoni, lo proiettò subito nel novero dei mammasantissima. Un numero straordinario (a nemmeno 23 anni) che però avrebbe alterato la percezione, soprattutto da parte del pubblico, del veronese. E impedì una crescita tecnica adeguata a Damiano, che divenne un po’ vaso di terracotta tra vasi di ferro. Troppo debole a cronometro per certi grandi giri, poco adatto a interpretare il mestiere (rischioso e feroce) del classicomane. Curioso che la strada di Cunego sia stata parallela a quella, più di trent’anni fa, del suo manager e mentore Beppe Saronni: magari troppo protetto nella sua dimensione di capitano, non ha raggiunto alcuni dei risultati che parevano nell’oroscopo. Pensiamo alla Liegi-Bastogne-Liegi, per esempio, una classica che sembrava disegnata sulle caratteristiche del nostro e mai sfiorata. Eppure Cunego ha vinto, e ben figurato, dalla primavera all’autunno. Chiuse quarto il Giro 2006, preceduto da fenomeni circensi del livello di José Gutierrez, un quarto d’ora prima del disvelamento (parziale…) dell’Operacion Puerto. Eroe tranquillo dell’età turbolenta di mezzo, resta l’ultimo tricolore ad essersi imposto in una gara monumento (il Lombardia 2008), qualche settimana dopo che un compagno di club (Ballan) gli fregò il (suo) Mondiale a Varese.

L’epilogo del miglior Cunego, al netto del sesto posto al Tour 2011, fu l’anno seguente, alla Vuelta 2009, quando fece la voce grossa in salita. A Mendrisio, punta unica degli azzurri, non ebbe la forza di seguire Evans nel momento decisivo della contesa. Il resto è un declino dignitoso, sempre meno convinto e convincente, fino al saluto alla Lampre. Cuneghino ripartirà dunque da una realtà più provinciale, una squadra Professional, per chiudere in gloria col mestiere. Ci è piaciuta tanto la consapevolezza, la maturità, esibita da Damiano recentemente. Si è iscritto all’Università, scienze motorie, e ha dichiarato che – smesso l’agonismo – vorrebbe fare il preparatore, abbinando la laurea alle esperienze di quindici anni di sport. È l’ennesimo segnale che molti ciclisti italiani, almeno loro, hanno imparato la lezione: oggi e domani il ciclismo sarà di chi lavorerà (e studierà) meglio. In attesa di capire quando vedranno la luce (…) i federali, il Piccolo Principe ha nella sacca un patrimonio che il nostro movimento non dovrebbe disperdere.

Simone Basso, in esclusiva per Indiscreto

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