Calcio
Recoba e il televisore di Zamparini
Stefano Olivari 12/07/2020
Una bellissima parentesi nella carriera di Alvaro Recoba è stata quella vissuta al Venezia, nella seconda parte della stagione 1998-99, accettando il prestito una volta resosi conto di non avere spazio nemmeno in quell’Inter decisamente allo sbando, che aveva esonerato Simoni per Lucescu e che avrebbe poi malamente finito con Hodgson.
Era il neopromosso Venezia allenato da Walter Novellino, in fondo alla classifica della Serie A. Con presidente Zamparini e direttore generale Beppe Marotta, che convinse Moratti del fatto che al suo pupillo a 22 anni sei mesi da protagonista avrebbero fatto meglio di sei mesi in panchina. Era un Venezia che fra i giocatori di maggior qualità aveva Taibi, Luppi, Pistone, Pedone, Valtolina e soprattutto Pippo Maniero (c’era anche Tuta-Aristoteles). Fu comunque una scelta forte, Recoba, perché quasi in contemporanea partì per Napoli l’idolo Schwoch.
Novellino con intelligenza propose un 4-4-Recoba-1, con cui la squadra cambiò marcia, chiudendo la stagione a metà classifica. E il rendimento di Recoba fu eccezionale, con 10 gol e una valanga di assist, soprattutto per Maniero, in 19 partite, mostrando una motivazione che raramente negli anni successivi si sarebbe vista. Con giornate maradoniane, tipo quella con la Fiorentina. Zamparini fece di tutto per rinnovare il prestito, ma Moratti ci teneva tantissimo a mettere Recoba a disposizione di Lippi. Meno ci teneva Lippi…
Comunque qualche mese dopo avevamo appuntamento con Recoba a casa sua, un’intervista per l’Ansa o forse era soltanto cazzeggio. Era da un po’, da quando era andato a Venezia, che non ci andavamo, ed ovviamente il Chino si era dimenticato dell’appuntamento. Così la moglie Lorena ci fece accomodare in soggiorno, dove per qualche minuto rimanemmo davanti al televisore. Grande schermo, marca sconosciuta. Improvvisamente Recoba si presentò in pigiama, era tipo mezzogiorno, e disse: “Bello, vero? Zamparini mi doveva venti milioni e così me lo ha regalato”. In quel momento capimmo perché né noi né il Chino saremmo mai diventati grandi uomini d’affari. Ma almeno lui era un fuoriclasse in campo.