Quelli che voltano pagina

6 Febbraio 2007 di Roberto Gotta

MIAMI – Uno degli aspetti che non smette di colpire chi assiste ad una grande manifestazione sportiva americana è la rapidità con la quale, quando tutto è finito, si volta pagina, dal punto di vista pratico. Già normalmente il mattino dopo il Super Bowl tutte le strutture per la stampa ed i Vip – a questo ci riferiamo – sono parzialmente smantellate, ma questa volta avendo potuto restare in città fino a martedì (lunedì sera c’era Heat-Bobcats), abbiamo constatato ancora una volta la rapidità con la quale ci si mette tutto alle spalle. Mentre intorno alle 9.30 locali Tony Dungy e Peyton Manning terminavano la loro conferenza stampa da Mvp e coach vincitore, con l’aria di chi in quel momento non riesce a farsi venire in mente nessuno che stia meglio di loro, al di fuori del salone delle cerimonie muletti, trattorini, inservienti stavano letteramente smontando pezzo per pezzo l’enorme sala ospiti, con molti giornalisti ancora intenti a scrivere – ma in quel caso almeno tavolo e sedia restavano lì – in una involontaria metafora della ben nota, e benedetta, attitudine americana a non soffermarsi troppo su quel che è stato. Il che si riflette anche nell’ormai rituale pantomima che si sviluppa in casa di tutti i vincitori del Super Bowl: avendo terminato la stagione per ultimi hanno meno tempo degli altri, fermi in alcuni casi da 37 giorni, per programmare la prossima stagione, scegliere quali free agent rifirmare e quali contattare, prepararsi in vista del draft che è ‘solo’ tra due mesi e mezzo. Vietato però lamentarsi di questa situazione di ritardo, santo cielo, ed infatti ogni volta sfugge solo un accenno, ma nulla più, per fortuna. E del resto da Dungy, persona di immensa dignità e pacatezza, mai nervoso di fronte a qualsiasi domanda, mai scostante o scortese (almeno in pubblico), era difficile attendersi altro.
1. Anche chi non fa mistero della sua partigianeria pro-America nello sport può innervosirsi un pochino nel sentir parlare di ‘World Champion’ ogni volta che una squadra vince un campionato professionistico. E’ ormai dimostrato che nel basket si tratta di una affermazione incompleta per molti motivi, specialmente quando a vincere il titolo NBA è una squadra, se esiste ancora, priva di giocatori stranieri, ma certamente nel football è ancora plausibile dire che il vincitore del Super Bowl è anche World Champion, come non ha mancato di dire Bill Polian, il dirigente che ha costruito i Colts negli ultimi anni, dopo inutili tentativi di portare al titolo i Buffalo Bills. La diffusione del football nel mondo è ancora, e sarà sempre, troppo incompleta perché da qualche parte possano spuntare decine di giocatori stranieri in grado di togliere il posto ai colleghi americani, o tanto meno ‘nazionali’ (?) in grado di sfidare alla pari un’ipotetica, ed impossibile, selezione USA. E questo è un bene per il Super Bowo, che può legittimamente definirsi la partita di football con il più elevato livello di talento che si disputi ogni anno sulla faccia della Terra.
2. Non è molto utile, ora, parlare di tecnica e tattica, a due giorni dal SB e con la possibilità che molti lettori avranno avuto di consultare direttamente i siti americani, che di tali argomenti sono ricchi, ma facciamo un breve riassunto dei punti principali. Prima di tutto, ancora una volta, nella storia dello sport, si è dimostrato che certe etichette, soprattutto quella di perdente, sono stupide. Stupide, punto e basta: tormentato per anni da questa storiella, Peyton Manning (nella foto, insieme a Dungy) nelle ultime due gare ha giocato magnificamente, dimostrando saldezza psicologica nel superare un inizio difficile in entrambe le circostanze e nel tenere sotto controllo la situazione. Il suo lancio in condizioni precarie per il touchdown di 53 yards di Reggie Wayne, il quasi-pareggio sul 6-7, è stato un gesto magnifico, perché Manning, come ogni grande quarterback, nonostante la pressione difensiva su di sé è riuscito a mantenere la calma e la concentrazione e cogliere che Wayne era stato lasciato libero dalla decisione del safety (l’ultimo difensore arretrato, per così dire) Chris Harris di raddoppiare su un altro uomo, più vicino alla linea di scrimmage. Senza essere mai spettacolare o fenomenale nel resto della gara, Manning come sempre ha controllato la gestione degli attacchi della sua squadra, lasciando ampio spazio (ha lanciato solo 12 volte nel secondo tempo) agli ottimi running back Joseph Addai e Dominic Rhodes, che insieme hanno guadagnato 190 yards, ovvero una quantità mai concessa dai Bears quest’anno. Inoltre, ricordate quel lungo discorso sulla tecnica di placcaggio che facemmo qualche settimana fa, prendendo ad esempio proprio i Colts, che in quel periodo stavano concedendo centinaia di yards a chiunque? Bene, chi può si riguardi il placcaggio di Bob Sanders su Cedric Benson a 2’46” dalla fine del primo quarto, sul 14-6 per i Bears. Basso sulle proprie gambe, Sanders ha chiuso quelle di Benson con le braccia e con l’impatto del casco gli ha fatto schizzare via la palla, con fumble ricoperto da Dwight Freeney. Un placcaggio quasi perfetto, che ha ottenuto il risultato voluto. Mentre è stata invece pessima la posizione di corpo ancora di Harris sulla corsa di 36 yards di Rhodes a 5’23” del terzo quarto: altissimo sulle gambe, arrivando di lato, Harris non ha potuto che sfiorare il running back dei Colts, anche se è molto difficile comunque il placcaggio su un uomo in piena corsa, che con una lieve finta può modificarti l’angolo di contatto fino a renderlo nullo. In definitiva, i Colts hanno vinto con intelligenza, e fin qui si sapeva, con aggressività e con cattiveria in condizioni per loro non abituali, correndo molto e bene difendendo bene sulle corse, fregandosene della pioggia, e questo era meno certo, per molti che erano scettici non per cattiveria ma per legittima conseguenza dell’osservazione. Così come le perplessità su Rex Grossman, Qb dei Bears, avevano un motivo fondato, e sono state confermate. Grossman ha forte personalità e può rifarsi, perché i lievi difetti tecnici, quale quello di far galleggiare troppo la palla nei lanci lunghi in cui non ha perfetto equilibrio (così sono nati gli intercetti di Sanders e Kelvin Hayden, quest’ultimo con ritorno in touchdown tremendo per i Bears), sono rimediabili, ma bisogna vedere se coach Smith gli darà ancora tempo dopo avere avuto con lui una pazienza ammirevole. Per i Bears si aggiunga una statistica molto interessante: visto che si è spesso parlato di quanto sia importante per gli avversari dei Colts impedire a Manning di stare in campo a lungo e creare il suo ritmo fatto di azioni spesso suggerite senza huddle o chiamate sulla linea di scrimmage, va fatto notare che Indianapolis ha tenuto palla da 1’18” alla fine del secondo quarto a 7’30” del terzo, dunque 8’48” di fila. Considerando che nel mezzo c’è stato l’intervallo, più lungo del solito per via dello spettacolo di Prince, i Bears e Grossman non hanno svolto alcuna azione di attacco per quasi 56 minuti di tempo reale, ed è dura creare e crearsi un ritmo così. Se la rinomata difesa di Chicago avesse in qualche maniera ripreso il possesso in quel lungo drive (serie di azioni) di inizio secondo tempo, in cui Indy ha giocato tredici azioni guadagnando 56 yards e calciando il field goal del 19-14, forse qualcosina sarebbe andata in maniera diversa, per i Bears. Forse.
3. Si potrebbe scrivere un pezzo di dieci schermate video solo riportando le cifre che identificano un Super Bowl, e in effetti molti lo fanno. Numeri e assurdità (le guida della CBS contenente dati sulle trasmissioni, biografie di giornalisti e dirigenti, oltre alle statistiche sull’audience e mille altre cose, è di 120 pagine in formato A4…) si possono trovare ovunque, ma sono sostanzialmente dei riempi-articolo per chi non ha nulla da dire e preferisce l’aneddoto allo sport vero, aneddoto che tra l’altro va interpretato: se infatti si legge che il cosiddetto rating medio di un Super Bowl è tra il 40 e il 43%, significa che un massimo di 43 case

americane dotate di televisore è sintonizzato sulla partita. Il che – già lo abbiamo fatto notare in passato – vuol dire che la partita viene vista in meno della metà delle abitazioni statunitensi, e dunque le solite frasi “L’America si ferma per il SB” sono sostanzialmente sbagliate, anche se è ovviamente vero che per opinione comune la domenica della gara è diventata una sorta di festa nazionale, e che spesso chi non ha il televisore acceso in casa è semplicemente andato a vedere la partita in compagnia, nell’abitazione altrui o in uno sports bar, e dunque i numeri (ma va?) dicono solo una verità parziale. Però questo dato ci ha colpito: i telespettatori del Super Bowl sono stati 93.1 milioni, dunque più degli americani che sono andati a votare per le elezioni presidenziali del novembre 2004. Non sappiamo se ridere o piangere, ma è un’annotazione straordinaria.
4. Tutti rozzi ignorantoni nel football, vero? Bello come luogo comune. Tra i tanti esempi del contrario, questa chicca: nel presentare un servizio su Tony Dungy e Lovie Smith, i due coach, l’NFL Network ha presentato in una schermata un brano tratto da una delle epistole di Cicerone…
5. Delle schifose vicende di Catania, che come è stato giustamente scritto altrove in questo sito non sarebbero state molto al di fuori della norma se non ci fosse stato l’assassinio di Filippo Raciti, si è sentito qualcosina anche negli Stati Uniti, dove peraltro ci sarebbe bisogno di un corso accelerato di inciviltà anche solo per permettere a questa gente di capire perché mai ci si debba picchiare ad un evento sportivo (i 2-3 ubriaconi che vengono portati via alle partite di baseball o football o alle corse NASCAR non fanno ovviamente testo). Nel corso della popolare trasmissione PTI (Pardon the Interruption), che va in onda su ESPN e consiste sostanzialmente in una faccia a faccia tra due giornalisti, sempre gli stessi ovvero Michael Wilbon e Tony Kornheiser (quello con la barbetta rossa che nel Monday Night Football è seduto in mezzo), su vari argomenti, con un cronometro che scandisce il limitatissimo tempo a disposizione per ciascuna discussione così da costringere alla sostanza, uno dei temi era ‘Riots’, appunto scontri tra tifosi. I due commentatori, appena rientrati in sede dal Super Bowl, non sapevano molto altro che quel che avevano letto, ma è assai raro che si parli di sport italiano in quella trasmissione, e che se ne sia parlato in quella maniera è significativo. E triste.
6. Ancora incroci Italia-USA, che vengono spontanei in queste situazioni, e si risolvono senpre in una netta sconfitta morale per tutto quello che ci ricorda l’ex (ma quando mai?) Bel Paese. Al Super Bowl, non per la prima volta, era presente Inés Sainz. Chi? Semplice: è la bionda giornalista televisiva (ovvio…) messicana che la scorsa estate, ai Mondiali, aveva turbato coscienze e vita di molti cronisti (e giocatori) italiani, visti anche con i nostri occhi scattare fotografie alla ragazza, particolarmente quando dava, come dire, la schiena. Bene, al Super Bowl non se l’è filata nessuno: gli abbigliamenti erano quelli di sempre, ovvero estremi e francamente un pochino esagerati per chi voglia magari farsi prendere sul serio come giornalista (negli USA tale ambizione conta ancora, ma in effetti Inés è messicana…), ma quel che ci è piaciuto è che a parte qualche occhiata nessuno dei cronisti americani sia andato oltre o abbia abbassato la propria dignità scattando foto a lei o con lei, almeno per quel che abbiamo visto.
7. Sempre in grandissima forma Dan Marino, 45 anni, l’ex grande Qb dei Dolphins che era uno dei commentatori da studio (allestito in un angolo dello stadio, a venti metri dal campo) della rete CBS. Del resto, Marino ha soldi a non finire ed abita a Miami, cosa vuole di più? Ecco, a quanto pare vuole di MENO, ma per la casa-castello di Weston (sobborgo di Miami) che ha messo in vendita nel 2005. Nonostante la folla di milionari che sembra spuntare ogni giorno in questa parte della Florida, dove una delle più brillanti agenti immobiliari è una ex modella milanese, nessuno aveva voluto spendere i 15.9 milioni di dollari (!) chiesti da Marino per la magione, che conta sei camere da letto, due casette separate per gli ospiti (…) ed è anche stata usata come scenario di lusso in ‘Ogni maledetta domenica’, quel pessimo film andato sugli schermi qualche anno fa. Vista la fuga dei possibili acquirenti, Marino e la moglie hanno abbassato il prezzo, che è ora un accessibilissimo 14.5 milioni… Scherzi a parte, i due, che hanno sei figli, hanno anche messo in vendita una villa che avevano fatto costruire in un’altra zona, senza andarci mai ad abitare. Questo sì che è un affare: 4.65 milioni, ma non ha il parco attorno, ha solo un posto letto per gli ospiti, un garage per quattro auto – formato USA, dunque almeno cinque normali auto europee – oltre alle normali sei stanze da letto ed un bel camino. Come si sa buono per le riviste glamour di pseudo bella vita ma per il resto non molto utile…siamo a Miami, giusto?

Roberto Gotta, da Miami
chacmool@iol.it

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