Pubblico (e pago) a tre mesi

2 Gennaio 2013 di Stefano Olivari

Anno nuovo e cialtronismo vecchio. Nella cosiddetta Agenda Monti, quella che fa sbavare i centristi (in italiano: persone che si vergognano a definirsi di destra e/o aspirano a fare affari con la sinistra) avremmo inserito il divieto per chiunque di effettuare pagamenti con un ritardo superiore ai 30 giorni. Questa sì che sarebbe stata una norma a tutela dei precari, oltre che delle aziende oneste. Sarà per il prossimo ‘tecnico’, allora. Certo è che la vicenda di Pubblico, il quotidiano diretto da Luca Telese e chiuso dopo tre mesi di vita con quel retorico e poco autocritico editoriale che abbiamo letto troppe volte, richiama alla mente centinaia di storie editoriali analoghe. Un direttore con grande visibilità televisiva, una redazione in larga parte composta da ‘gggiovani’ al primo (e ultimo, visto l’andazzo) contratto vero, un discreto riscontro di vendite iniziale per poi velocemente scivolare verso numeri (4.200 copie) che a malapena sono la metà del livello di pareggio visto che il pubblico, con la p minuscola, non ha trovato motivi per comprarlo ogni giorno (a un euro e cinquanta, oltretutto, in un paese dove invece viene ritenuto un affare spendere il decuplo per una pizza). A occhio qui non c’è stata la disonestà di tante altre situazioni, con editori reduci da tanti fallimenti impegnati solo a rastrellare qualche contributo pubblico e mettere in piedi un circo pre-elettorale in combutta con un direttore-specchietto per le allodole che i soldi li ha poi presi in separata sede. Non ci sembra sia questo il caso. Con Pubblico sono stati persi soldi veri (centomila euro dello stesso Telese) e buttato via lavoro vero, quindi la sua chiusura va trattata senza quella spocchia di chi in vita sua non ha mai investito su se stesso. Nato in sostanza come una scissione del Fatto Quotidiano, dove prima scriveva Telese, Pubblico non è piaciuto e non è interessato: tutto qui, anche se è già stato schiacciato il tasto ‘incompresi martiri del giornalismo’. Senza collocazione politica precisa, se non una generica sinistra, in un mondo di tifosi (e quelli della politica sono peggiori di quelli del calcio, dove nessuno litiga per un rigore di settanta anni fa) l’esito era già scritto. Il punto è però un altro: come è possibile che per tre mesi lavoratori, fornitori, stampatori siano andati avanti? Facciamo due, dopo il primo mese di mancati pagamenti. Qualcuno i soldi li avrà visti, la maggioranza (soprattutto dei collaboratori) senz’altro no. Non è solo una questione di leggi o di rispetto delle stesse, ma di predisposizione di tutti noi a farci imbrogliare e a imbrogliarci. Quello che è certo è che Telese tornerà in televisione a dire che ci vogliono più garanzie per i lavoratori ma anche più mercato. Ecco, il mercato ha detto che di Pubblico non c’era bisogno. E i lavoratori l’hanno preso in quel posto. Però, visto che questo disastro non è costato nulla alle casse dello Stato, bisogna almeno rispettare il tentativo. Una delle frasi che hanno attribuito al mitico commendator Borghi, il patron della Ignis, era ‘Icaro credeva di essere un uccello, invece era un pirla’. Ma Borghi, la cui Ignis fra l’altro andò in crisi e fu venduta alla Philips (adesso è della Whirlpool) prima della morte del fondatore, aveva torto sapendo di averlo. Se non si pensa di potere essere uccelli, si vivrà direttamente da pirla.

Share this article