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Football Americano

Più voti a Brees che a Bush

Roberto Gotta 28/11/2006

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C’era stata, nei mesi scorsi, tutta quella godibilissima storia di doppi sensi sul fatto che a New Orleans, nemmeno un anno dopo la devastazione dell’uragano Katrina e le enormi lacune nella gestione dei soccorsi, il cognome Bush fosse improvvisamente diventato popolarissimo: magliette, slogan, adesivi, tutti inneggiavano a lui, il potenziale salvatore della città. Peccato che non si trattasse di George W. ma di Reggie, che non aveva ancora nemmeno corso una yard con il pallone incassato tra polso/palmo e il gomito e tenuto fermo in punta con il dito medio come insegnano ai giovani, che il vescovo locale, nel corso di una visita del giocatore ad una scuola, gli aveva consegnato un ritratto di un certo Saint Reginald, manco a farlo apposta un santo vissuto nella città francese di Orleans. Insomma, la sorte ed una puntigliosità ai limiti del maniacale da parte degli Houston Texans, tenutari della primissima scelta del draft NFL dello scorso aprile, avevano dato ai Saints la possibilità di vedere la luce, nelle sembianze di Reggie Bush, alto poco meno di 1.80, running back cioè portatore di palla, vincitore dell’Heisman Trophy 2005 come miglior giocatore universitario e due volte campione NCAA con Southern California, che tradizione e luogo comune vogliono ‘fabbrica’ di giocatori di quel ruolo. Al college ne aveva fatte di tutti i tipi, segnando su corsa ‘normale’, aggettivo peraltro poco appropriato per uno come lui, su ritorno di punt e di kickoff, su lancio: uno spettacolo, la classica situazione in cui ogni volta che un giocatore tocca o riceve la palla può accadere di tutto. Il coach di USC, Pete Carroll, ex allenatore NFL di peraltro lieve successo, lo aveva addirittura visto come atleta in grado di occupare qualsiasi ruolo di quelli etichettati, con generosità imprecisa, come ‘tecnici’, come se invece giocare in linea d’attacco o di difesa richiedesse solo forza bruta. Si riteneva che negli ultimi anni la NCAA non avesse espresso un attaccante così forte, così versatile, così consapevole della propria peculiarità e al tempo stesso spavaldo senza dare sui nervi. Eppure Houston, rieccoci al punto accennato in precedenza, non l’aveva scelto, ribaltando settimane di previsioni e chiacchiere pre-draft. Motivo? Razionalissimo e validissimo, ma è stato uno di quei casi in cui quel che è ragionato e basato su valutazioni totalmente prive di emotività non può venire accettato dal grande pubblico e in questo caso nemmeno dagli esperti più accreditati. I dirigenti dei Texans, infatti, avevano ritenuto che per le esigenze della loro (pessima) squadra fosse più utile chiamare al numero uno Mario Williams, un defensive end uscito da North Carolina State senza particolari clamori, e diedero a lui l’onore della prima scelta. Capita, ogni tanto, nella storia dello sport pro americano: hai la prima scelta, e allora prendi il miglior giocatore in assoluto, anche se nel ruolo sei già sufficientemente coperto, o razionalizzi le lacune del tuo roster e chiami quello che ti serve, fregandotene dei commenti altrui? Nel 1984, draft NBA, i Portland Trail Blazers con la chiamata numero 2 seguirono la seconda strada, preferendo Sam Bowie, un centro che a loro serviva, ad una guardia di nome Michael Jordan, e il resto lo conosciamo. Ma Bush, alias Saint Reggie come Salvatore di New Orleans, alias The President per quell’omonimia? Rimasto malissimo per la scelta dei Texans, apparentemente non aveva alcuna intenzione di finire ai Saints e c’è chi dice che il suo agente l’avesse fatto sapere alla squadra, ma è finita che New Orleans ha chiamato proprio Bush e un secondo dopo c’era già il finimondo in città. Quasi 20.000 ordini di magliette dei Saints con il nome Bush, adesivi e T-shirt come detto, e il buon Reggie che si è sciolto presto dalla sua diffidenza una volta accertato che al suo passaggio c’era gente che ancora un po’ si aspettava la benedizione. Sulla storia delle maglie da gioco va aggiunto che ci fu una diatriba che odora di sport pro come poche altre cose: Bush al college, dove c’è una discreta libertà su questioni del genere, aveva il numero 5, e avrebbe voluto mantenerlo anche nella NFL per vistosissime esigenze di marketing, peccato però che le regole NFL permettano ai running back di vestire solo numeri tra il 20 ed il 49 (per i ricevitori è 80-89, per dire). Lunghe discussioni, con Bush che promette di donare una cospicua parte degli introiti al fondo per la ricostruzione post-Katrina ma la NFL giustamente non molla e il ragazzo, esortato tra l’altro anche dal giornalista Peter King, che incamera il numero 25, acquistandolo (letteralmente… ma è finito tutto in beneficienza) dal compagno di squadra Fred McAfee e facendone il proprio emblema, condito da contratti pubblicitari che gli avevano fruttato 6-7 milioni di dollari prima ancora che avesse messo piede in campo. Ora, dopo tutto questo panegirico di Bush, la volete sapere una cosa? Con la grande stagione dei Saints lui c’entra poco o niente. Nel senso che avendo come compagno di reparto Deuce McAllister, che è ‘solo’ uno dei migliori cinque running back della NFL o meglio lo era certamente prima dell’infortunio del 2005, Bush non è ancora diventato il punto focale dell’attacco, e finora ha avuto una deludente media di yard guadagnate per ogni corsa: un suo difetto, come hanno notato alcuni addetti ai lavori, è che ogni volta che tocca la palla desidera arrivare in touchdown. Mica una brutta mentalità, ma lo porta ad esempio a cercare di compiere una-due finte per sbilanciare gli avversari – che però qui sono più grossi, più veloci e più malefici che al college e se ti sposti lateralmente ti sono subito addosso – e non invece, quando lo spazio visivo si chiude, semplicemente a mettere giù la testa, proteggere la palla e accontentarsi di quelle 2-3 yard; ed a volte è vero il contrario, ovvero ha cercato di usare solo velocità e fisico quando sarebbe stato utile ragionare di più e fare una finta, ma è proprio nell’apprendimento della capacità di miscelare i due diversi approcci che sta il segreto per diventare un grande giocatore professionista. E’ il Saint con più ricezioni (64, per 431 yard), ma ha segnato finora un solo touchdown su corsa, anche se il primissimo della sua carriera pro è stato un memorabile ritorno di punt contro Tampa Bay, 65 yard di zigzag ed accelerazioni che per un attimo hanno ridato vita al Bush che si era visto al college. Eccoci, invece, al vero grande protagonista della stagione. Ha un nome ed un cognome che persino in America qualcuno pronuncia volutamente storpiato, allungando le vocali (la ‘e’, del resto c’è solo quella, anche se la prima si pronuncia ‘u’) ad imitare l’accento texano che è quello natio del ragazzo, Drew Brees. Prima scelta del secondo giro del draft 2001 da parte di San Diego, ha intorno a sè un numero tale di aneddoti che la Settimana Sportiva non potrebbe raccoglierli tutti. Prima cosa, quasi terminato il college a Purdue, era stato contattato da una persona che intendeva fargli da agente: la madre Mina, avvocatessa di grido e maneggiona degna di ben altre nazioni. Aveva preferito rivolgersi ad un procuratore affermato, Tom Condon, e da quel momento il suo rapporto con la madre si è deteriorato al punto che quando la signora Brees, nelle recenti elezioni per alcuni posti da giudice nel Texas, ha sistemato nel suo sito Web la foto del figlio, Drew le ha immediatamente chiesto di toglierla minacciando di farle causa, circostanza che in una navigatrice dei tribunali texani e specialmente di Austin, la capitale, non avrebbe peraltro generato particolare timore. Insomma, facendola quasi breve, a San Diego Brees aveva giocato malino fino al 2003 compreso e si era ritrovato in casa un rivale di valore, Philip Rivers, arrivato nel 2003 in un giro draft che aveva dato Eli Manning ai New York Giants. Ma Rivers aveva perso settimane intere di preziosissimo training camp – cruciale per un rookie al quale l’impatto con gli schemi della propria squadra, l’identificazione delle difese altrui e le responsabilità NFL può risultare traumatico – e Brees si era riguadagnato il posto da titolare, che si era tenu
to stretto nel 2004 e nel 2005. Nell’ultima partita di regular season, però, si era fatto male alla spalla, un grave infortunio che per un giocatore la cui efficacia dipende dalla potenza e dalla fluidità del movimento di lancio può essere letale. Anche per questo la discussione del nuovo contratto con i Chargers divenne complicata: il club offriva buone cifre ma – comprensibilmente – con un’alta percentuale di stipendio legata al numero effettivo di partite giocate e di rendimento, Brees se la prese perché sentiva venir meno la fiducia e dopo qualche settimana di trattativa e – ancora – un’offerta dei Miami Dolphins gravata di clausole legate alla salute della sua spalla decise di firmare per New Orleans, che aveva posto meno vincoli. Bene, al momento Brees è il quarterback che ha lanciato per più yard nella NFL (3463), completando il 66.6% dei suoi passaggi (54 dei quali al sorprendentissimo rookie Marques Colston), ed è diventato il primo QB nella storia della lega a lanciare per 1954 yard nell’arco di cinque partite, le ultime, anche se ha ragione, di fronte ad uno studio statistico così pignolo, a chiedere moderazione ”perché credo che analizzando le statistiche si possa inventare un record per ogni cosa”. Domenica, nella grande vittoria 31-13 nel derby del sud – davvero sentitissimo – ad Atlanta, ha lanciato per 349 yard, di cui 48 – ma nella realtà, visto che era ovviamente arretrato per effettuare il lancio, sono state circa 55 – nell’ultima azione del primo tempo, quando il suo passaggio della disperazione è stato catturato in touchdown da Terrance Copper per il 21-6 che ha sgonfiato i Falcons: in quel caso, un passaggio di pura potenza – non poteva esserci precisione, perchè si tratta di gettare il pallone in una zona affollata sperando che qualcuno dei tuoi lo prenda – ha mostrato per l’ennesima volta che il recupero di funzionalità ed efficacia nella spalla è stato completo. Meno vistoso e meno pubblicizzato del suo corregionale Bush, Brees nondimeno è diventato l’altro simbolo della rinascita dei Saints, anche perchè scegliendo di abitare in un bell’appartamento nei pressi del centro, e non in una villa nei sobborghi nobili, ha concretamente dato l’impressione di voler essere parte della scena e non di considerare New Orleans come un semplice ufficio. Non è ancora detto che i Saints entrino nei playoff, risultato che sarebbe totalmente contro i pronostici estivi: a sette vinte e quattro perse, con il successo ad Atlanta a spezzare una serie di tre sconfitte nelle quali avevano mostrato la letale tendenza a perdere palloni, New Orleans deve vincere ancora almeno due delle cinque rimanenti partite per stare tranquilla, e metterle in tasca tutte per assicurarsi il vantaggio del fattore campo per tutti i playoff, anche se dipenderà pure dai Chicago Bears che sono 9-2 e dunque vincendo a loro volta tutte le gare sarebbero irraggiungibili nella National Football Conference. Il coach Sean Payton, alla prima stagione ai Saints e personaggino di aspetto gentile ma animo ‘animalesco’ come lo ha definito un giocatore, ha peraltro notato che nelle settimane in cui Brees lanciava per il maggiore numero di yard medie a partita il rendimento complessivo non era ottimale perché la squadra era troppo sbilanciata sul gioco di lanci (ed infatti aveva perso quattro partite su cinque dopo il 5-1 iniziale), ed è necessario che torni in piena efficienza il gioco di corse, quasi un’assurdità data la presenza di McAllister e Bush: come si sa, lanciando e lanciando si segna e anche in fretta (quando va bene), ma così si costringe la difesa a tornare sul campo troppo presto e nel quarto quarto di gioco oltre che nei playoff è invece importante controllare e dominare il possesso di palla e tenere i difensori a riposo il più possibile, e perdonateci la semplificazione. Già però vincere così tanto, risvegliare l’orgoglio di una larga parte della città ed essere considerati squadra da prime time televisivo (la gara del 10 dicembre contro Dallas è diventata infatti il Sunday Night Football della NBC) è un traguardo enorme per chi nei giorni di Katrina, quando certo c’erano problemi più pressanti che non il football, pareva destinato a lasciare del tutto la città e stabilirsi magari nella Los Angeles tuttora priva di una squadra. Del resto, non sono del tutto alle spalle i tempi in cui i Saints erano così inguardabili che un giornalista, Buddy Diliberto poi divenuto celebre per altri motivi di cui non c’è spazio per parlare, propose ai tifosi di andare al Superdome con un sacchetto (come quelli del pane) in testa, per vedere sì la partita, ma in incognito, per non farsi riconoscere come fans di tale accozzaglia di giocatori. Erano i primi anni Ottanta, e la meravigliosa flessibilità della lingua inglese permise anche un gioco di parole crudele: non li chiamavano più Saints, ma Aints, che più o meno vuol dire gli inesistenti. Stavolta il Superdome è tutto esaurito in abbonamento, roba da 68.354 spettatori a botta, e gli unici sacchetti sono quelli con i panini dentro. Un bel salto di qualità, anche se non gastronomica.

Roberto Gotta
chacmool@iol.it

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