Sono stato più cattivo, la testa punk di Enrico Ruggeri

11 Luglio 2017 di Indiscreto

Se c’è una cosa che non manca a Enrico Ruggeri questa cosa è la capacità di osservare e raccontare, anche al di là della traduzione in musica. Per questo Sono stato più cattivo (Mondadori) sembra una di quelle rare autobiografie realmente scritte dal loro protagonista e non da giornalisti desiderosi di trovare una ‘chiave’ a esistenze che spesso sono casuali anche per gli artisti. Arrivato a 60 anni il cantautore, definizione che a chi è stato giovane nei Settanta non evoca sempre sentimenti positivi, parla della sua vita senza voler tirare un bilancio ma solo, dichiaratamente, per lasciare una testimonianza di sé alle persone che gli vogliono o hanno voluto bene. Un libro appassionante per chi conosce i quasi quaranta, considerando anche live e periodo con i Decibel, album di Ruggeri e quindi riesce ad associare le canzoni a dati momenti della sua vita, ma ben comprensibile anche a chi ha sentito parlare di Ruggeri per i 10 Sanremo (vittorie nel 1987, con Si può dare di più insieme Morandi e Tozzi, e nel 1993 con Mistero) e le tante canzoni di successo scritte per altri (da Quello che le donne non dicono in giù), oltre che come bravissimo conduttore televisivo e radiofonico, con la sua Il Falco e il Gabbiano su Radio 24 (è anche il titolo di un suo storico album, quello in cui c’è Punk prima di te).

Il libro, dunque. La storia di un bambino milanese, di zona Porta Romana, che vive il declino finanziario della sua famiglia senza avere neppure sfiorato l’era del benessere. Figlio unico di un padre assente (era lui quello in origine ricco) che si lascia vivere cercando di sfuggire alla vita e di una madre che si fa in quattro per garantirgli una buona esistenza materiale ma con la quale forse non entra mai in sintonia. Un bambino, poi ragazzino, né atletico né bello, fanatico di calcio ma che trova nella musica la sua ragione di vita e nella contrapposizione (inizi negli anni Settanta, con progressive e cantautorato a dominare) al sistema dominante la sua unicità. Una battaglia combattuta concerto per concerto, disco per disco, partendo dal punk (la cui filosofia è senz’altro più attuale ed eversiva delle canzoni), passando per la new wave e arrivando a toccare praticamente tutti i generi. Basti dire che come produttore ed autore Ruggeri è stato dietro ad alcuni miti della Italodisco anni Ottanta come Diana Est, nel libro trattata con freddezza (i testi di Tenax e Le Louvre, opera ruggeriana, sono genio puro) e Den Harrow, letteralmente inventato (nemmeno cantava, nè mai lo avrebbe fatto) dopo un incontro casuale in discoteca.

Molto divertenti e amari i racconti sul sottobosco musicale italiano, pieno di truffatori ma anche di artisti che fanno di tutto per essere truffati, ed in generale un tono equilibrato che si addice ad uno come lui, credibile sia nella nicchia sia nel mainstream. Consapevole dei limiti di entrambi i mondi, Ruggeri non mitizza niente ma riconosce la grandezza di alcuni personaggi (afferma che alcune grandi lezioni di musica e di vita gli sono state impartite da Gianni Morandi). In generale si capisce che nonostante il grande successo commerciale di molti suoi dischi e la buona considerazione della critica Ruggeri pensi di essere un sottovalutato, anche per sue scelte sbagliate. Molto duro con se stesso, soprattutto quando parla del suo rapporto con la cocaina e con le donne, Ruggeri come tutti gli esseri umani pensa che avrebbe potuto fare di più e nel suo caso forse è vero.

Un ottimo libro, con due argomenti secondo noi sottodimensionati. Il privato, in senso sentimental-sessuale, è un po’ tirato via nonostante Ruggeri spesso lo evochi per spiegare alcuni suoi errori: tanto è profonda la parte sull’adolescenza, tanto sono superficiali certi passaggi sul Ruggeri adulto. Si capisce che non vuole mettere in difficoltà persone viventi, ma allora avrebbe fatto meglio a non toccare l’argomento. La seconda parte meritevole di approfondimento è quella politica. Accostato spesso alla destra, quando non direttamente a alla destra estrema, Ruggeri è soprattutto stato contro l’omologazione al punto che quando la musica italiana non ha più avuto bandiere politiche lui ha fatto politica per Pannella. Che poi il punk, privo di venerati maestri e con nel mirino i venerati maestri degli altri, mandasse fuori di testa il classico critico musicale in giacca di velluto è un altro discorso: Ruggeri pur avendo in partenza riferimenti diversi (David Bowie, ma anche i glam-rock Sparks, per non dire i Roxy Music) e amando un rock più condiviso è passato anche da quel mondo, già poi quasi abbandonato ai tempi di Contessa (la canzone che ha messo i Decibel e lui in particolare sulla mappa pop), che lui stesso ha accostato più a Kurt Weill che alla new wave. Di certo la politica, così presente in tanti suoi testi, nel libro è stata liquidata senza grandi complimenti come se facesse parte del passato. Poi i libri su politica e musica, anche riferite solo ai Settanta, li hanno scritti in tanti. Ma proprio per questo manca e ci manca ancora la versione di Ruggeri.

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