Le cuffie di chi non ascolta

29 Agosto 2016 di Oscar Eleni

Oscar Eleni dalla foresta pluviale del fiume Hoh, seduto sulla pietra rossa sistemata nell’Olympic Park di Seattle da Gordon Hampton, il guardiano del silenzio, l’uomo che vorrebbe far ascoltare il jukebox della terra senza rumori umani. Difendersi dall’oasi dei frastuoni. Ecco uno da ingaggiare. Lo diciamo alle varie leghe sportive che sono prigioniere del rumore a pene di segugio, che accettano, nel nome di una modernità paleolitica, le “ideuzze” dei vari animatori dello spettacolo sportivo. Una resa verso l’essenza del concetto che dovrebbe dominare: al centro del palcoscenico, con tutti i loro difetti, anche adesso con l’orgia dei separè, quelle cazzate di tatuaggi, pettinature da zoo di Berlino, con quelle facce lombrosianamente catalogate per spaventare bambini più che avversari, ci devono stare soltanto gli atleti. Ascoltiamo il suono del campo: volendo, con tanto studio della vicenda, si potrebbe pure fare il vero coro al gesto, all’azione, alla prodezza.

Tempo sprecato. Non vogliono che la gente ascolti il jukebox naturale di uno stadio, un palazzo dello sport, il rumore delle ruote sull’asfalto che ha stregato la De Stefano, preferiscono quello inventato per evitare che la gente si possa ancora parlare, raccontandosi cose, piangendo e ridendo, cercando di stare insieme. Qui ti reputano un grande se scendi dal pullman in divisa sociale con cuffie giganti per escluderti dagli altri. Cosa avrebbe fatto il grande Nereo Rocco se le sue battute per caricare, sdrammatizzare (“Chi ha paura si sieda sul pullman”, e lui fu il primo a sedersi), fossero finite contro i vetri, da nessuno ascoltate? Figurarsi il mitico Acca Acca, l’Herrera della grande Inter morattiana. Diciamo che nel tempo tutti i grandi allenatori hanno capito che qualcosa veniva rubato al concetto di squadra, che non ci sarebbero stati più i Manlio Scopigno capaci di far vergognare calciatori incalliti fumatori e giocatori d’azzardo con quell’entrata nella camera segreta: “Disturbo se fumo?”.

Ce lo diceva Cesare Rubini, tanto, troppo tempo fa, prima che la Milano del basket trovasse il più grande dei mecenati e si dimenticasse di lui tanto da non riuscire a dedicargli quello che dovrebbe essere il nuovo Palalido, perdendo una storia nella palazzina Liberty, i suoi simboli, per camminare su un Duomo stilizzato, quando aveva deciso che le scarpette più rotte che rosse, a quel tempo, imparassero a conoscere e a vedere Parigi. Fu tutto inutile. Dormivano quegli sciagurati, al massimo davano un‘occhiata, ma poi si mettevano a leggere e Notre Dame svaniva oltre la torre Eiffel. Autista, fu l’urlo del Principe, diretto al ristorante La Coupole, almeno là capiranno qualcosa, anche se non ne era sicuro. Aveva ragione, ma quelli erano angeli in confronto a questi.

Lasciateci il silenzio al di fuori del calcio becero, in questa caccia all’allenatore scemo più scemo. Un gioco dell’estate, col mercato aperto, che in autunno porterà verso l’orrendo foco del licenziamento chi pensava di aver convinto presidenti, dirigenti che ogni mattina si svegliano e, guardandosi allo specchio, urlano convinti dalle ombre invisibili: se fossi io l’allenatore questo gruppo farebbe dimenticare il Leicester e persino Bolt.

Vogliono gli urlatori alla ribalta, i maestri cantori dove tutto è incredibile, straordinario, eccezionale, guardate come beve a garganella il Gargamella sul campo, sarà per questo che alla Rai hanno già promosso i peggiori di Rio e non sono stati pochi, per cui aspettiamoci il peggio quando farà più freddo. Non ridano a SKY, le cineserie non sono soltanto patrimonio dei nuovi padroni del calcio milanese, ne hanno di peccati sulla coscienza, ma se ne strafottono. Un po’ come quelli che non riescono a spiegare i tagli alle spese perché si è scoperto che nel girotondo della Formula uno, nel canto mai libero dei motori, hanno investito tanto e guadagnato pochissimo. Piloti in secondo piano. Viva le gomme, morbide meglio, gloria alle squadre di meccanici che hanno i tappi alle orecchie, sono dei magnifici esecutori delle manovre per far ripartire subito i loro campioni teleguidati. Un po’ come fanno quelli del cislismo. Alle Olimpiadi non avevano auricolari, valeva il linguaggio dei segni, l’istinto, avete visto cosa è successo. Certo se tutti hanno cuffie perché non parlarci dentro? Lo farebbero anche nei meeting di atletica. Pure qui avrete notato che le gare olimpiche avevano un sapore diverso dal baraccone dove un meeting prende punti se le lepri portano a fare primati, non certo per la bellezza della sfida, della gara vera.

Siete tutti invitati a Seattle, anche voi che non riuscite a capire la frase del dissenso per l’Olimpiade romana del 2024: stiamo ancora pagando i debiti per quella del 1960. Be’, di cose malfatte nel passato di Roma ce ne sono state tante, continuano anche oggi fra ratti e acque che da bionde sono diventate violacee, ma se c’è stato un passo avanti nella cultura sportiva del paese questo lo si deve ai giochi di Roma 1960 e sfidiamo qualsiasi bastian contrario scelto via internet, eletto dal “popolo”, a dimostrarci che i dirigenti di quello sport non hanno lasciato qualcosa. Lo si potrebbe scrivere da tutti i campi Zauli d’Italia, da ogni scuola dello sport. Non ci faranno caso. Sarà per questo che la dolorosa vicenda Donati-fratelli Damilano va avanti, andrà avanti. Certo chi conosce gli interpreti di questa brutta storia non sarà confuso. Bastano pochi contatti. Certo questo lo dicono i donatiani repubblicisti e quelli che pensano a Scarnafigi come una Camelot e ricordano bene come vivevano certi inviati paludati ai tempi in cui il professor Conconi non era ancora stato bruciato sui roghi dell’ipocrisia perché si fa fatica a vedere beatificato Tizio e scomunicato Caio, anche se hanno commesso più meno la stessa colpa.

Non vi diremo di andarvi a leggere sull’Espresso una ripresa di Gigi Riva, vicedirettore e scrittore, non calciatore, del pensiero che alienò tante simpatie ad un eccellente giornalista come Giorgio Reineri, coltivato al Tuttosport, ma cresciuto al Giorno, con Signori e Grigoletti, che oggi ad Amblar sarà ricordato dagli amici di sempre, seguendo il pontificato breriano. A quei tempi il nostro ex campione piemontese delle siepi pensava che non ci fosse una madame De Barra per rimettere a posto il caos creato dalla smania di guadagno e gloria e allora, prendendo spunto da un bel libro come Panem et Circenses, oh grulli non avete inventato niente, né la WADA né la sfera ultrà da sfruttare mungendola e sfruttandola, il nostro piemontese scrisse di liberalizzare il doping per i professionisti, perché il vero lavoro educativo andava fatto alla base, nella scuola, nei settori giovanili. Furono urli, strepiti, crociate, persino cazzotti. Ma siamo sempre allo stesso punto. Qualche nemico di allora adesso sembra aver cambiato idea, ma resta la santa inquisizione, pazienza se si torna agli untori, se vengono messi alla tortura i Gian Giacomo Mora della situazione. Oh Italia vostra sbriciolata dai furbetti di qualsiasi quartiere. Adesso temi i migranti, ieri chi cercava colpevoli per nascondere la mancanza di pane, domani chissà. Importante che si possa minacciare, vantandosi di avere mezzi per portare in tribunale il nemico. Tanto quando ci saranno le sentenze chi si ricorderà qualcosa?

Ad Alex Schwazer abbiamo voluto bene quando era l’arguto re dei marciatori che vinse a Pechino, che iniziò una “strada nova” con Didoni nella sua bella tuta da Carabiniere, ma poi ci siamo sentiti male davanti a quel dramma, alle lacrime, al coinvolgimento per un suo peccato grave di tanti che, magari con leggerezza, cercavano di aiutarlo. Errore grave. Ma è la natura di certa religioni e filosofie. Lasciar passare, lasciar andare pur sapendo che educare è anche sacrificio perché come diceva quel taxista indiano a volte si vince, a volte si impara.

Cercate il silenzio anche voi che ora ridacchiate perché su un giornale famoso, nel dare la notizia sul nuovo record mondiale della Jebet, in pochissime righe, hanno sbagliato di tutto e di più: cognomi, nazioni, tempi. È così. Una volta ti cacciavano, adesso pensano invece soltanto a prepensionare, riducendo le redazioni a cupo ritrovo per disperati.

Ora i baskettari che non vedono l’ora di sputare su questa rubrica si chiederanno se parleremo anche di palla al cesto pur sapendo che manca più di un mese per rivedere partite vere, per rientrare nel “fantastico”, ce lo ha detto la Gazzetta al raduno di Milano, mondo dell’Emporio dopo le “imprese” dell’anno scorso. Sarà per questo che pur sapendo di correre per il secondo posto le rivali dell’ultima stagione si presentano arzille, belle cariche. Crede in se stessa Venezia e fa bene. La stessa cosa Reggio Emilia, Sassari, Avellino, Cremona, Trento, non parliamo delle altre, a parte Cantù che resta un mistero da svelare nel campo di lavoro scelto da Gerasimenko lontano dal Cantuki, nel suo prediletto mondo a est del nostro duomo. Caro Pini la tua Bormio era il regno del benessere, adesso ci va soltanto Milano.

Comunque tutti belli arzilli. Pensate che la Lega sta persino preparando la presentazione del campionato, un lavoro massacrante, sembra, se chi se ne occupa è così preso dall’impegno da mancare raduni dove non c’è rimpianto obbligato, ma soltanto la felicità di poter ricordare un grande collega ed amico insieme alla sua compagna. Sparsi per il mondo. Convinti di saper odiare più e meglio degli altri, con la testolina da vittimisti sempre in azione.

Vi lasciamo con il dispiacere di non sapere rispondere davanti alle morti ingiuste, alle tragedie che portano via tutto e scatenano, sempre dopo, le procure alla ricerca del colpevole. Doloroso, ma giusto, non mettere in scena lo storico meeting di Rieti. Per gli ottant’anni del professor Giovannelli ci fermeremo comunque tutti e brinderemo alla sua storia di vero uomo che ha amato e ama l’atletica.

Ci ha fatto male anche saltare il secondo palio in fila vinto dalla Lupa nell’anno bisestile 2016. Un ritorno di fede nella contrada del Pianigiani ma, per noi, soprattutto, del grande Renzino Corsi, corrispondente emerito della Gazzetta dove veniva trattato come una Olimpiade il meeting dell’amicizia al Rastrello, qualcosa di speciale come ci diceva sempre Alfredo Berra quando, inviandoci verso il Baco bello chef, ci dava un lungo elenco di persone da incontrare, non soltanto salutare, aperto al mondo, storia nostra che non capirebbe mai una disputa Donati-Damilano. Si litigava anche allora, erano scontri duri, ma restava il territorio libero dove tutto si faceva per il bene e la gloria dell’atletica che dovevi studiare molto prima di poterla sposare.

Se proprio non potete fare a meno del basket vi girerò un quesito del professor Carlà, uno che sul doping potrebbe scrivere libri interessanti, sul Sergio Scariolo bronzo olimpico, unico protagonista italiano a Rio in questo gioco dove ancora si ascoltano i camerieri di corte incapaci di spiegare perché mai la “più grande nazionale di sempre” affidata al migliore dei nostri allenatori, tiene la povera Italia al 35esimo posto nel ranking della FIBA dagli arbitri bolsi.

Da Firenze una domanda che dovrebbero farsi altri, soprattutto quelli che considerano la nostra scuola cestistica all’avanguardia nel mondo, alcuni pensano persino negli Stati Uniti se Ettorre diventasse capo allenatore, anche se poi alle feste comandate vanno altri e non ci dicano che nelle giovanili crescono bei giocatori: qualcuno c’è, ma la fame è sempre poca e il fesso che ti dice domani sarai al piano di sopra non manca di sicuro per cui devi fare salti mortali quando è il momento di spiegare certi risultati, certe porte sbattute in faccia. Certo a loro basta un po’ di silenzio, la scolorina e tutto si dimentica. Vitelli grassi in abbondanza per chi ha soldi da spendere. Pensando ai campioni, certo non ai ragazzi. Anche nel basket, come ha giustamente denunciato Rondelli sul Corriere parlando dell’atletica da zero tituli olimpici, gli allenatori sono pagati poco, soprattutto dove si deve costruire tenendo alla larga genitori ed agenti di ragazzi precoci.

Dunque la domanda per chiudere: “Ma non dicevate, voi a Milano, che Sergio Scariolo era rincoglionito?”. Come poteva essere rincoglionito uno pagato così bene, uno che ha avuto da casa Armani tutto ciò che voleva? Si discuteva, ce lo dicevano gli artisti del fuoco amico, degli allenamenti a porte chiuse, che si lavorava più sulla tattica che sulla mente, sul fisico e la tecnica. Cosa perfetta per una selezione nazionale. Grande europeo, buona Olimpiade. Il resto è storia. Lui, don Sergio, convinto che ci fosse un’aria mefitica intorno al basket governato da Siena con le regole del Monte, ma questo non ha impedito il divorzio. Ora anche su Banchi diranno quello che un tempo dissero di Bucchi o, magari, di Lardo. Succede da sempre e Djordjevic, cacciato senza colpa all’inizio dell’era di re Giorgio vorrebbe addirittura tornarci. Dal calcio impariamo il peggio. Anche in uno sport dove è più difficile barare, calciando la palla in tribuna e fare zero a zero. Per questo onoriamo chi sfida Milano sapendo di potersi battere soltanto per la finale che, al momento, a parte il Forum nuova casa Armani, ha sempre palazzi sconci da presentare all’occhio del tempo e della gente. Ma stiamo ancora elaborando il lutto per la mancata partecipazione olimpica. Poi non ci sarà tempo e via così dal Circeo a Trieste.

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