Perdere con Kobe

28 Ottobre 2014 di Stefano Olivari

La NBA che riparte stasera è la lega di LeBron James, su questo sono d’accordo anche i numerosi ‘hater’ (odiatori) del Prescelto che dopo 4 anni e 4 finali (2 vinte) a Miami è tornato a casa, ai Cleveland Cavs. Non soltanto per scelta romantica, per quanto questa sua seconda ‘Decision’ sia stata mediaticamente meglio gestita di quella del 2010, ma anche perché la squadra sembra da titolo già al primo colpo dopo l’arrivo di Kevin Love da Minnesota. Particolare non secondario: James per questa presunta scelta di vita non ha fatto sconti, guadagnerà l’equivalente di quasi 20 milioni di franchi in questa stagione e mezzo milione in più nella prossima. Inoltre nell’estate 2016 avrà le mani libere per sfruttare varie situazioni, prima fra tutte la possibile abolizione del tetto salariale per singolo giocatore.

Le discussioni sui soldi non sono una fissazione, perché gli ingaggi di alcuni giocatori tolgono margini di manovra anche in prospettiva. Non è un caso che l’uomo di cui si è parlato maggiormente in questo periodo di amichevoli sia stato Kobe Bryant: 36 anni ma soprattutto 18 di vita Lakers e usura fisica NBA, che per la sua squadra è ormai oggettivamente un peso. Non solo perché i suoi 22 milioni e passa di franchi in questa e i suoi 23,6 nella successiva stagione impediscono di muoversi bene sul mercato dei free agent, ma anche perché la sua personalità debordante unita all’inevitabile declino toglie la voglia a qualunque altra stella di venire a provarci nei Lakers: Carmelo Anthony, tanto per fare nomi, ha preferito rimanere ai Knicks a metà del guado piuttosto che fare un tentativo da partner di Kobe. Che è stato difeso dai Buss, padroni del vapore che guardano già al 2016, forse (togliamo pure il ‘forse’) con Bryant allenatore e una squadra credibile in campo.

Al di là degli uomini copertina, i Cavs sono davvero favoriti nella Eastern Conference: con James, Love, la stella della squadra (fino allo scorso giugno) Kyrie Irving e Dion Waiters qualcuno già parla senza troppa fantasia di ‘Big Four’. Certo è che sembra una squadra inarrestabile in attacco e un po’ meno in difesa, ma comunque già adesso in grado di mettere qualche brutto pensiero nella testa degli Spurs campioni. Per la finale di conference candidati credibili in un Est poco decifrabile sono fra gli altri anche gli Atlanta Hawks che con Thabo Sefolosha (per lui contratto da 4 milioni di franchi) lasciato libero dai Thunder hanno aggiunto un specialista difensivo importante in una squadra già completa e con grande potenziale in attacco, senza dimenticare i Chicago Bulls legati mani e piedi alle condizioni fisiche di Derrick Rose, di fatto fermo da due anni e apparso in precampionato più brillante della sua versione al Mondiale spagnolo.

Un po’ staccati, sulla carta, i Miami Heat orfani di LeBron, con uno Wade declinante e un Bosh scontento, ma che mantengono la loro identità difensiva: l’arrivo di Luol Deng significa che non hanno smobilitato, tutto l’ambiente pagherebbe di tasca proprio per un incrocio nei playoff con i Cavs. Non male gli Washinton Wizards, teatro degli show della coppia Wall-Beal e i Toronto Raptors, a completare le otto da playoff potrebbero essere le due squadre di New York: i Knicks galvanizzati dal grande ritorno di Phil Jackson (anche se soltanto come dirigente) e i Nets rimasti in mezzo al guado dopo le folli spese del 2013. I Pacers sono stati di fatto stesi dall’infortunio in nazionale di Paul George, che gli farà saltare l’intera stagione, tutto il resto è da asteriscare: a partire dai gloriosi Celtics e Sixers si punta a perdere, o comunque a far passare uno o due anni, in attesa di fortuna nei prossimi draft o di situazioni buone sul mercato dei free agent.

A Ovest può essere l’anno di Los Angeles, però di quella relativamente meno hollywoodiana rappresentata dai Clippers. Venduti di forza per due miliardi di dollari da Donald Sterling a Steve Ballmer, sempre incentrati sull’asse Chris Paul-Blake Griffin. Sulla stessa linea sono gli Oklahoma City Thunder, che iniziano la stagione senza Kevin Durant infortunato (ne avrà per un mese e mezzo) a un piede e ai quali manca sempre qualcosa nel momento giusto. Nulla di meno hanno i San Antonio Spurs reduci dal quinti anello dell’era Popovich, ma di più hanno gli anni e le ore di volo di Duncan, Parker e Ginobili. D’accordo, sembrano eterni e Kawhi Leonard è ormai una stella, ma tutto finisce.

Un piano più sotto un altro terzetto: lo spettacolo dei Golden State Warriors di Stephen Curry, il fenomeno dal fisico solo apparentemente impiegatizio in cui tutti amiamo identificarci, l’equilibrio dei Dallas Mavericks e il talento diffuso degli Houston Rockets, dove Capela (per il ginevrino un milione e 100mila franchi circa per questa sua prima stagione) rischia seriamente di passare un anno da spettatore. Dietro può succedere di tutto, anche se le rose delle squadre dicono che Pelicans e Nuggets potrebbero agguantare i playoff. Pochi dubbi sullo sprofondamento dei Lakers, che hanno perso anche Steve Nash: infortunio alla schiena in seguito al sollevamento di una valigia (!) e carriera probabilmente finita.

Certo è che questa NBA pur con la sua stagione regolare (82 partite) piena di serate imbarazzanti per la sua credibilità, causate dalle troppe squadre in ricostruzione e praticanti il cosiddetto ‘tanking’, non è la prima lega più seguita in patria, dove domina la NFL del football, ma è quella che ha diffusione più capillare nel mondo: dal 2016 al 2026 ESPN e TNT metteranno sul piatto quasi 3 miliardi di dollari all’anno, con relativo passaggio all’incasso dei giocatori più forti e una classe media che magari vedrà nell’Europa opportunità migliori rispetto a quelle di oggi.

(pubblicato su Il Giornale del Popolo di martedì 28 ottobre 2014)

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