Perdenti come Manning

23 Gennaio 2007 di Roberto Gotta

1. Tornando al tema della scorsa settimana, onore ai vinti. Ai New Orleans Saints e ai New England Patriots, che sono tornati a casa – letteralmente – in circostanze che seppur ben diverse hanno alla fine lo stesso sapore negativo. I Patriots sinceramente non sono molto assimilabili al modello di squadra che perde occasioni, per l’esperienza e l’astuzia che lo staff tecnico ha accumulato nel corso degli anni ma che evidentemente non è stato in grado di trasmettere in pieno ai giocatori. Palloni non trattenuti come quelli di Reche Caldwell – due, e chi ha visto la partita non può dimenticare gli occhi larghi come fanali spaventati del ricevitore dopo il secondo errore – e quell’intercetto finale di Tom Brady, al quale però non va dedicata un’attenzione morbosa: con gli avversari perfettamente consapevoli che i Patriots avrebbero lanciato, e lanciato perlomeno a distanze medie, è evidente che la difesa di Indy aveva tolto linebacker ed aggiunto defensive back (ovvero i difensori più mobili e veloci) per poter coprire ogni zona del campo e dunque non è poi così grave lanciare un intercetto contro una sistemazione difensiva del genere. E’ che l’eccellenza di Brady sotto pressione era diventata ormai così scontata che ogni errore viene visto come una specie di sacrilegio. Eppure nelle ultime tre partite di playoff – che fastidio questi frazionamenti statistici, però – Brady è 1-2.
2. Quanto ai Saints, hanno buttato via tutto in pochi minuti del terzo quarto, nel momento in cui la loro difesa era riuscita, nello splendido scenario da football del Soldier Field – neve, vento, freddo: c’è di meglio, per vedere il football? (magari per giocarlo è un altro discorso) – a fermare i Bears per tre serie consecutive: dal momento che c’erano grossi dubbi sulla capacità del quarterback Rex Grossman di mantenere la calma sotto pressione, costringere Chicago alla rimonta e dunque ad uscire dal metodico bombardamento di corse della coppia Benson-Jones poteva voler dire lo spostamento dell’equilibrio della gara in direzione di New Orleans. La scossa, con i Bears avanti 16-7, era arrivata all’inizio del terzo quarto, appena dopo l’intervallo, quando un preciso e morbido lancio di Drew Brees aveva raggiunto Reggie Bush sul lato sinistro. Bush era uscito per quella che in gergo si definisce ‘valvola di sicurezza’: si verifica quando il running back si accorge che tutti i ricevitori sono ben marcati (‘coperti’, da covered) ed esce spontaneamente a liberarsi per dare al Qb un bersaglio facile, anche perché in questi casi la difesa può non individuarlo subito. Oddio, va detto che rivedendo più volte l’azione sembra in realtà che Bush esca verso la zona chiamata ‘flat’ (perché ‘schiacciata’ a ridosso della linea di scrimmage, dal punto in cui parte la palla) come parte dello schema, perché lo fa immediatamente dopo lo snap. Il risultato è stato però che Bush, notoriamente un corridore eccezionale quando ha spazio per accelerare, si è trovato in uno contro uno con Brian Urlacher, l’eccelso middle linebacker che però in condizioni tali può avere difficoltà. Ed infatti il numero 25 di New Orleans con un cambio di marcia ed una finta si è bevuto 88 yard, anche se avrebbe potuto evitare – non per nulla ha poi chiesto scusa – quell’indice beffardamente puntato all’indietro verso Urlacher in prossimità della linea di goal, seguito poi da una capriola per atterrarvi al di là. La spinta emotiva era per i Saints, che in effetti subito dopo avevano fermato i Bears per quelle tre volte di fila, ma nel frattempo avevano anche sprecato un calcio da tre punti e poco dopo si erano ritrovati sulla propria linea delle 5 yards: messo sotto pressione con efficacia dalla difesa di Chicago, Brees ha lanciato in una zona priva di ricevitori, e questo si chiama intentional grounding, ovvero lancio in zona sguarnita al solo scopo di evitare di essere stesi con il pallone in mano. Si tratta di un’infrazione, sostanzialmente antisportiva, e quando si è così vicini alla propria zona di touchdown la punizione è il safety, ovvero due punti per la difesa. 18-14 Bears, impeto emotivo trasferito dall’altra parte e gara virtualmente finita.
3. Passando alle due vincitrici, Indianapolis ha compiuto un enorme passo, superando l’ostacolo della partita decisiva contro un’avversaria che è sempre stato facile identificare come più furba e dotata di risorse di altre, anche dove inferiore. La combinazione dei risultati aveva permesso ai Colts di recuperare il vantaggio del fattore campo che pareva svanito nel brutto finale di stagione, e che peraltro lo scorso anno non aveva dato alcun frutto, se si ricorda la sconfitta contro Pittsburgh proprio all’RCA Dome. Ma l’inizio della gara, con quel 21-3 per New England, pareva di quelli perfetti per una squadra in trasferta in condizioni simili: si mette subito a tacere il tifo di casa, si crea una divergenza psicologica con la squadra favorita e si procede lisci. Il 21-3 iniziale era però stato vagamente falso, creato nell’arco di pochi secondi in cui si era passati dal 7-3 al 21-3, appunto: dopo il 14-3, immediato intercetto di Asante Samuel, definibile da manuale se l’espressione non fosse fin troppo banale. Su una traiettoria ‘hook’, cioè ad uncino verso l’esterno, Samuel ha letto perfettamente lo sviluppo dello schema ed invece di arretrare per coprire un eventuale allungamento della traiettoria del ricevitore è scattato in avanti, intercettando la palla in corsa e poco distante dalla linea laterale, circostanza nella quale un qualsiasi defensive back NFL è irraggiungibile nella sua volata verso la end zone. L’enorme merito dei Colts è stato quello di non arrendersi dopo quella mazzata, e infilare poi la più grande rimonta nella storia di una finale di conference. Evidente che ora si dovrà riconsiderare qualcosa delle nozioni su Peyton Manning: è tendenza odiosa, che personalmente conosciamo bene per averla vista applicata immeritatamente a persone vicine a noi, etichettare come perdenti dei grandi giocatori che siano spesso, ma non per esclusiva colpa propria, coinvolti in situazioni in cui la loro squadra ottiene meno del previsto. Lo si diceva, e tanto, anche di Manning, che con quell’ultimo drive di 80 yards per il touchdown decisivo di Joseph Addai ha confermato al resto del mondo – i compagni lo sapevano già – di avere un sangue freddo tremendo, e pazienza se prima di scendere in campo per quell’ultima serie di azioni mangia-cronometro aveva detto una preghierina. Ora, il problema è un altro, ovvio: messo alle spalle anche questo pregiudizio, con una rimonta strepitosa in una partita di grande pressione, tra 13 giorni per Manning si ricomincia da capo, perché nel Super Bowl contro un Qb molto meno quotato come Rex Grossman la pressione sarà tutta su di lui, e un po’ meno su quell’altro. Qui, in queste righe, non leggerete però mai la parola ‘perdente’, per uno come Manning. Rivolgetevi altrove, dove certi aggettivi da un soldo si usano senza precauzioni.
4. Ne avrete letto in giro, per la prima volta un coach di colore approda al Super Bowl. Anzi, non uno, ma due. Pare che significhi qualcosa. Mah. Non crediamo alle ‘tendenze’ smentibili in pochi mesi – fate conto, Messina, Palermo e Catania sono in Serie A e si parla di rinascita del calcio siciliano, come se in un anno non potessero mutare completamente gli scenari – e dunque non riteniamo che si tratti dell’inizio di una spinta o di un nuovo corso. Semplicemente, due dei non molti coach di colore, due bravi e preparati e seri, hanno portato la loro squadra alla finale, e con merito. Nel 1988, quando per la prima volta alla partita decisiva arrivò un Qb di colore, Doug Williams, lo stupido circo dei media produsse una quantità industriale di scemenze, investendo il povero Williams di responsabilità non appropriate, e tra tali scemenze si dice che spuntò anche la domanda «Da quanto tempo sei un quarterback nero?». Beh, è una leggenda: la domanda vera, più logica, era stata un’altra, che voleva accertare da quanto

tempo Williams sentisse come un peso particolare quello di essere il leader di una squadra ed avere la pelle nera, ma come sempre capita in ambiti mediatici prevalse l’aneddoto sulla verità, e tutti a casa. Speriamo solo che a Miami si considerino Tony Dungy e Lovie Smith, tra l’altro amici per la comune militanza come assistenti a Tampa, come ottimi allenatori (anche Dungy come Manning ha dovuto sentire anni di porcherie sulla sua incapacità di vincere, e ha dovuto pure ingerire il dolore per il suicidio del figlio, nel dicembre del 2005) e basta, come persone serie, come condottieri affidabili, e non come allenatori di colore. Ma temiamo che non andrà così.

Roberto Gotta
chacmool@iol.it

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