Per non cadere, intervista a Gianni Bugno

Esce l'autobiografia di colui che Gianni Mura chiamava ironicamente 'Vedremo', simbolo di un ciclismo ancora umano e personaggio umile come pochi  

1 Maggio 2021 di Simone Sacco

L’appuntamento è alle sette di sera precise ed entrambi non sgarriamo di un secondo. Lui stranamente loquace, sereno ed io impertinente il giusto nel chiedergli più cose possibili. L’occasione sarebbe di natura puramente promozionale (è da poco uscita una sua bella autobiografia intitolata Per non cadere – La mia vita in equilibrio scritta assieme a Tiziano Marino: prefazione di Romano Prodi, editore Baldini & Castoldi), ma come fai con uno come Gianni Bugno a metterla sullo scontato? Quindi liberiamo i sentimenti, teniamoci stretti e impazziamo nuovamente con quell’urlo belluino di De Zan padre ben piantato nelle nostre orecchie: «C’è Bugno in testaaa, c’è Bugnooo, Bugno campione del mondo!». Perché in questo monzese dallo sguardo  ombroso ma dal cuore d’oro risiederà sempre quello sprint così nostro e così italiano che ci farà staccare in scioltezza tutte le insignificanti miserie di questa vita.

 

Gianni Bugno è da sempre un osso duro per giornalisti e adulatori. Forse è per questo che la tua autobiografia mi giunge un po’ inaspettata…

All’inizio ero un po’ scettico anch’io, ma poi mi sono lasciato convincere da Tiziano Marino. Ho letto il libro che aveva scritto assieme a Damiano Cunego (‘Purosangue. Il Piccolo Principe, un campione a pane e acqua’ del 2019. Ndr) e la cosa mi ha convinto a dare l’ok all’intervista principale da cui poi è nato ‘Per non cadere – La mia vita in equilibrio’. A dirtela tutta avremmo voluto farlo uscire un po’ prima, ma nel frattempo è arrivato ‘sto casino del Covid e ci siamo dovuti adattare.

Questo però resta un libro abbastanza corale, no?

Esatto. In queste pagine sono raccolte anche le numerose testimonianze di chi mi ha conosciuto da vicino e ha avuto a che fare con me. Non sono io che mi auto-celebro e basta. Vai a capire, sarà che non mi sono mai piaciuti i libri senza contraddittorio.

Non ti ha fatto strano raccontarti ad un giornalista che aveva appena 2 anni quando hai fatto l’accoppiata Milano-Sanremo/Giro d’Italia, 4 quando hai bissato il titolo di campione del mondo a Benidorm e 10 quando hai concluso la tua carriera indossando la maglia della Mapei?

No, in realtà è stata una bella esperienza perché, sai, è sempre utile osservarsi da un altro punto di vista. Tiziano è stato bravo, ha intervistato tutte le persone che gli ho chiesto di contattare, ci siamo fatti una lunga chiacchierata e il libro è venuto alla luce poco alla volta. Tutto qui.

Parliamo di te. Di Gianni Bugno mi ha sempre colpito questo suo modo quasi buddista di volersi staccare dai feticci del ciclismo sotto forma di coppe, medaglie, divise e biciclette. Tant’è che non hai conservato nulla di quegli oggetti materiali legati alla tua epoca d’oro…

Semplicemente era quello che desideravo. D’altronde, una volta che il risultato è stato conseguito, a cosa servirà mai una coppa? A prendere polvere su di una mensola? Come atteggiamento mentale sono sempre stato un uomo proiettato nel futuro. Del passato agonistico me ne frega fino ad un certo punto. Tant’è che ora se mi chiedessi che fine hanno le mie due medaglie di campione del mondo, non saprei nemmeno dirti dove siano…

Un’altra cosa di te che mi ha sempre fatto alzare il sopracciglio è quando affermi che non sai andare in bicicletta…

Però è così.

Mi prendi in giro?

Macché. La verità è che io ho sempre pedalato da persona normale, come uno che va a girare al parco la domenica mattina. Non sono mai stato lo “specialista” su due ruote o uno che, durante la gara, si metteva a fare i numeri. Andavo forte, quello sì, ma lì devo solo ringraziare la natura che mi ha donato un fisico speciale.

Un trademark di Bugno è che gli piaceva pedalare mischiato nel gruppo: di solito in decima  fila, leggermente spostato sulla destra. Confermi?

Sì, cercavo di starmene in una posizione sicura. La confusione non mi è mai piaciuta e, caratterialmente, non ero di certo uno che se la andava a cercare. Questo soprattutto da giovane. Me ne stavo lì, pedalavo in gruppo e intanto imparavo. Tutto quello che so del ciclismo l’ho appreso in questa maniera: ascoltando i veterani e accumulando l’esperienza necessaria.

Hai mai creduto a quell’opinione comune che vedeva in te l’erede più credibile di Bernard Hinault?

(pausa) Be’, mi è sempre sembrato un paragone un po’ eccessivo… Hinault, oltre che un grande campione, è sempre stato il mio idolo assoluto. Forse io gli ho un po’ copiato il metodo “attendista”, ma da qui a dire che ero il suo erede naturale ce ne passa.

Quando hai cominciato finalmente a vincere, invece di gonfiare il petto tenevi ancora di più i piedi per terra. Giusto? 

Può essere.

Ti faccio qualche esempio. Dopo aver conquistato la Milano-Sanremo del 17 marzo 1990 dichiarasti ai cronisti che il vento ti avevo dato una grossa mano… 

E difatti andò proprio così. Il vento spezzò il gruppo fin dai primi chilometri tramutando quella Sanremo del ’90 in qualcosa di assolutamente particolare. La mia fortuna fu quella di trovarmi in testa alle prime folate. Com’è che si dice? Nel posto giusto al momento giusto.

Sempre in quel 1990 domini il Giro d’Italia restando in maglia rosa da Bari fino a Milano. Impresa riuscita nella storia solo a Girardengo (1919), Binda (1927), Merckx (1973) e Bugno. E da allora stiamo ancora aspettando il tuo successore…

Tranquillo, prima o poi ricapiterà. Lì ebbi la buona sorte di conquistare la maglia fin dalla prima tappa. E a quel punto, se sei un ciclista professionista, che fai? La molli? Lo desideri così tanto, quel rosa addosso, che è perfino logico tenerselo stretto fino a Milano.

La fai facile, tu. Allora perché qualche mese dopo sei andato a dire a Gianni Mura che è il Tour, e non il Giro, a elargire le stimmate del campione?

Perché il mio pensiero era ed è esattamente quello. A me in primis è sempre interessato vincere il Tour de France, punto. Solo che, quando ne ebbi la possibilità (nel 1991 e nel 1992 con Bugno classificatosi rispettivamente secondo e terzo alla Grand Boucle. Ndr), trovai un certo Miguel Indurain sulla mia strada.

Ti rode ancora?

No. Quelle due volte non ci sono riuscito e, tutto sommato, va bene così. Polemizzare nello sport è stupido visto che chi arriva secondo resta pur sempre il primo degli sconfitti.

Forse contro quell’invincibile Indurain ci voleva una specie di Frankenstein ciclistico formato dalla testa di Bugno e dal cuore di Chiappucci, no?

E poi magari le avremmo prese a cronometro… (pausa) No, spiacente, contro l’Indurain dei primi anni Novanta (cinque Tour consecutivi dal ’91 al ’95. Ndr) sarebbe stata comunque una sfida impari. Miguel volava nelle sfide contro il tempo, andava forte in salita e, ciliegina sulla torta, aveva al suo fianco una squadra fantastica chiamata Banesto. Troppo per me e forse anche per Claudio.   

È vero che per El Diablo tu eri “Grugno”?

Sì, mi chiamava così perché, in gara, ero sempre bello ingrugnito. Ed io ci ridevo sopra. 

Gianni Mura, invece, ti battezzò ‘Vedremo’ perché era praticamente impossibile estorcerti un pronostico o una tattica…

Un altro soprannome simpatico. Più grave sarebbe stato se qualcuno mi avesse dato dello st**onzo, ma fortunatamente non mi è mai successo. (accenna una piccola risata)

Mura è stato il giornalista italiano che ha saputo raccontarti meglio?

Gianni era uno che scriveva basandosi su quello che vedeva con i suoi occhi. E aveva questa dote di sapere raccontare sulla carta quello che io non sarei mai riuscito a tirar fuori con le mie parole. Non solo Mura, anche altri giornalisti, a dire la verità… Loro lo sapevano fare, io no. Sono fatto così.

Cosa hai provato lo scorso 21 marzo 2020 quando hai appreso della sua scomparsa?

Che ci aveva appena lasciati un grande giornalista e un altrettanto grande personaggio. Sarò banale, ma Mura è stata una grave perdita per il vostro mestiere. Soprattutto per quel che riguarda il narrare storie, belle storie.

Parliamo di quella tua pericolosa abitudine d’alzare le braccia al cielo qualche attimo prima di tagliare il traguardo. A Stoccarda ’91, all’epoca della tua prima vittoria mondiale, ci fu l’esempio più clamoroso; ma anche al Giro delle Fiandre del 1994 quando hai battuto di un pelo Johan Museeuw…

Eppure, credimi, io staccavo le mani dal manubrio solo quand’ero sicuro al 100% di vincere… (pausa)

Sicuro?

Ok, qualche volta sembrava che le alzassi troppo presto, come a Stoccarda. E altre le alzavo effettivamente prima, come quella volta contro il mio amico Museeuw. Lì sbagliai di brutto, inutile girarci attorno. Tant’è che non so nemmeno quanti minuti ci vollero per arrivare al fotofinish definitivo: dieci, venti?

Meno di dieci.

Vabbè, solo che nella mia testa sembrava che non passassero mai…

Ad essere sinceri le cronache sportive provenienti da Stoccarda parlarono di un Alfredo Martini bianco come un lenzuolo. «Stavolta Bugno l’ha fatta grossa con quel suo dannato istinto di festeggiare in anticipo», le parole del CT…

No, in Germania io ero sicurissimo di avercela fatta. In televisione ci fu questa sorta di illusione ottica in cui sembrava avesse vinto allo sprint Steven Rooks, ma io quella benedetta riga l’avevo tagliata eccome prima dell’olandese. Se avessi sbagliato come al Fiandre, te lo direi senza problemi.

 Il 6 settembre del 1992 vinci a Benidorm, da perfetto outsider, il tuo secondo campionato del mondo consecutivo. E anche lì sfoggio mostruoso di modestia bugniana: «Forse ‘sto titolo se lo meritava di più Laurent Jalabert», raccontasti ai media.

(lunga pausa) Grazie: cosa dovrei aggiungere? Te l’ho già detto: la mia unica qualità era quella di azzeccare le volate al termine di determinate corse lunghe e faticose. Come quel giorno a Benidorm. Anche se lì gran parte del merito fu di Giancarlo Perini, un gregario serio come pochi.

Torniamo al presente. Cosa mi dici del Giro d’Italia che comincia il prossimo 8 maggio a Torino?

Che lo vedrò sulla Rai, come tutti gli appassionati di ciclismo. Speriamo tanto che qualche giovane italiano faccia la sua parte conquistando qualche tappa. Anche se per la vittoria finale, a parte Nibali, non sono troppo ottimista per i nostri colori.

Scusami per la domanda sciocca, ma è più impegnativo prestare soccorso con l’elicottero o presiedere da anni il CPA, alias il sindacato mondiale dei corridori?

Non è sciocca la domanda, è che sono proprio due attività differenti. L’elisoccorso è un incarico che mi sono preso fin dai tempi del mio ritiro e, come ogni lavoro di questo mondo, va inteso con scrupolo e dedizione. Ogni tanto lo trovi anche l’appassionato che ti riconosce e ti chiede l’autografo, ma io, con tutto il rispetto, sarei lì per salvare la gente. Ora come ora, tra l’altro, avrei pure una gran voglia di volare visto che per ‘sto Covid è oltre un anno che sono fermo a terra… (sospira)

Il CPA invece…

Quella è politica. Politica e basta. Nel senso che quando fai le cose per bene non ti viene a ringraziare nessuno. Mentre se sbagli qualcosa ecco che passi subito per il primo pirla da incolpare… (sorride amaro) Comunque a me piace, è un impegno che svolgo volentieri.

Ti piace anche il ciclismo odierno? Una volta hai dichiarato che, ai tuoi tempi, quando compariva sulla scena Gino Bartali tutti i ciclisti nei paraggi drizzavano le orecchie per ascoltare i suoi consigli. Era la Storia che parlava, in fondo. Oggi invece è difficile che un giovane impegnato nel UCI World Tour presti attenzione ad un big degli anni Ottanta e Novanta…

Magari non ascoltasse solo quelli della mia generazione, lì mi andrebbe pure bene… (pausa) I giovani ciclisti di oggi, a dircela tutta, non danno retta neanche ai corridori più esperti ancora in attività. Nelle varie squadre attuali non esiste un concetto di gerarchia, ecco. Invece, per come la penso io, chi è lì da più tempo di te dovrebbe comunque essere rispettato a priori. Certo, leggendola da questo punto vista, forse anche gli stessi “anziani” dovrebbero farsi rispettare maggiormente…

Chiudiamo col calcio: ma è vero che sei amico di Stefano Pioli?

Sì, non ci conosciamo di persona, ma mi ha fatto piacere essere citato da lui nel corso di un’intervista in cui diceva delle belle cose su di me. Gli ho mandato un messaggino per ringraziarlo e ci siamo promessi, alla prima occasione, di andarci a fare una sana pedalata assieme. Non vedo l’ora.

Però tu sei interista, vero?

Sì, e spero che Conte stacchi presto, anche lui, le mani dal manubrio in segno di vittoria. Ok, c’è voluta una pandemia di mezzo, ma ormai questo scudetto dovrebbe essere quasi nostro…

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