Palazzo meno Vecchio

28 Settembre 2013 di Simone Basso

Sarà l’influenza benevola del Giotto e del Brunelleschi, ma Firenze 2013 approccia lo zenith – la rumba del fine settimana – con gli alisei giusti. Domenica il meteo è incerto, tendente al brutto; con la pioggia la discesa di Fiesole diventerebbe un risiko. Le dinamiche taciute ma esplorate sono quelle dei gruppi trasversali: Cancellara ha al fianco una buona squadra (Albasini, Elmiger, Frank, etc.) ma necessita di qualche amicizia esterna. La Radioshack – nonno Horner, il nipotino Jungels, Popovych, Machado… – potrebbe essere d’aiuto nel momento del bisogno. E’ la nota stonata di Peter Sagan, che fa parecchio Sean Kelly, circondato da un combo così così e con poca Cannondale attorno. La mancia saranno gli interessi paralleli: club, l’Omega Pharma di Kwiatkowski e Stybar, o nazionali come Italia, Gran Bretagna e Colombia. Che vorrebbero la corsa dura per favorire i vari Nibali, Froome e Quintana.

Per raccontare il legno storto dell’Uci basterebbe valutare il lavoro della produzione televisiva dell’evento iridato. La categoria juniores non viene mostrata, il resto è una bella cartina tornasole del sistema. Il governo mondiale del ciclismo ha dato i diritti all’Infront, la società di Blatter junior. Per avere più margine di guadagno, le riprese sono state appaltate a una regia mediocre. L’immagine di uno sport globalizzato – lo stesso servito in tivù benissimo da France 2 e Raisport – viene affidata a telecamere traballanti e paesaggi incerti (in Toscana!). Ecco, il pasticciaccio brutto ci introduce alla fine dell’era Verbruggen; il sultanato che dal 1991 ha gestito il pianeta delle due ruote. Una propaggine dell’effetto Samaranch, ovvero il dirigismo sportivo nella fase più avanzata (e spericolata) della sua trasformazione in comitato d’affari. Da una parte la mondializzazione, il centro di Aigle, meritorio e avanguardistico, la vecchia Coppa del Mondo. Dall’altra il familismo che ha concesso ai McQuaid di autorganizzarsi Richmond 2015, l’abiura al settore femminile, il menefreghismo (cinico) con il quale si gestì Epolandia e la politicizzazione dell’antidoping quando il fenomeno deflagrò. Pat McQuaid, il verbruggeniano sconfitto, ha comunque dovuto barcamenarsi nel caos delle regole ambigue, etiche ed economiche, stabilite dal padrino olandese: i casi Contador e Armstrong (entrambi insabbiamenti falliti…) lo certificano.

L’assemblea elettiva di ieri è stata una farsa, cinque ore di lobbismo e di discussioni su codici Azzecca-garbugli: forse l’avrebbe potuta descrivere solamente Fellini… Palazzo Vecchio, una confusione assurda, Makarov che contestava i delatori e una fila imbarazzante di delegati davanti all’unico gabinetto della sala. Al di là di qualsiasi manicheismo, Brian Cookson – il presidente Uci neoeletto – idealizza una svolta per tutto lo sport. I movimenti che hanno promosso il rinnovamento, Gran Bretagna e Australia in primis, vedono il ciclismo per quello che dovrebbe essere: una disciplina volano, con una mitologia che in Europa nemmeno il calcio può vantare, fenomenale nell’evidenziare territorio, vivibilità e tecnologia. La bicicletta sport universale, dalla bmx e le ruote grasse al ciclocross e la pista, fino all’epica popolare della strada. Le scuole storiche hanno quasi tutte capito l’opportunità (Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, etc.), esemplare invece l’atteggiamento di Italia e Spagna, le realtà che più di ogni altre avevano prosperato durante il boom economico dei Novanta. Come non bastasse, last but not least, oltre al cambiamento culturale, Cookson promette l’affidamento dell’antidoping a un’agenzia indipendente. Vivaddio il punto di arrivo dell’anabasi cominciata nel 1998.

Poco più di un mese fa, ad agosto, verso le cinque del mattino, qualche fiorentino insonne si era imbattuto in una pupona che sfrecciava – in mezzo ai netturbini che ripulivano le vie – su una specialissima da crono. La bionda percorreva la kermesse mondiale a quell’ora insolita, mentre il diesse la filmava, per evitare il traffico della città. Martedì scorso, la ciclista notturna, l’olandese Ellen Van Dijk, ha stravinto la competizione. Una prova di alto livello, così come (ancor di più) è stata la corsa maschile, una sfida degna del leggendario Gran Premio delle Nazioni. Che fu, per quasi settant’anni, il mondiale ufficioso dell’esercizio solitario contro (e con) il tempo.

Ieri, 27 settembre, era il sessantesimo anniversario di una giornata speciale. Nel 1953, un diciannovenne di buone speranze, Jacques Anquetil, si presentò al via del Grand Prix des Nations e ne stravolse i canoni. Semisconosciuto, contro i professionisti, su un percorso di 140 chilometri (!), annichilì la concorrenza. Una pedalata tacco-punta prodigiosa, il ritmo e la postura di un dioscuro: raggiunse cinque avversari lungo la strada; il primo, il belga De Smet, provò a seguirlo e scoppiò. Giunse a 18 minuti dal normanno; del resto il secondo – Creton – ne beccò quasi sette… Sull’ammiraglia rosso fuoco, sorpreso ma non troppo, il grande Francis Pélissier. Colui che ingaggiò il biondino alla Le Perle era anche il fratellino di Henri, il fuoriclasse degli anni Venti che in molti aspetti, nelle luci e nelle ombre, era simile al fenomeno di Rouen. Jacquot e la sua odissea esaltante, stramba, da maudit, disegnano uno scenario unico del Novecento sportivo. La storia d’amore con Janine, le vittorie chirurgiche, la rivalità tremenda con Poulidor; una visione del mestiere e della vita spiazzanti, anticonformiste. Ci piace ricordarlo oggi, a sei decenni da quel pomeriggio parigino dove cominciò tutto.

(per gentile concessione dell’autore, pubblicato da ‘Il Giornale del Popolo’ il 28 Settembre 2013)

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