Palanca oggi

22 Agosto 2013 di Igor Vazzaz

Piccoletto, baffuto, sorta di SuperMario Bros ante litteram, quando i videogiochi dovevano ancora sfondare e il calcio italiano viveva l’ultimo tratto di autoimposta autarchia. Massimo Palanca da Loreto, nei tratti somatici, aveva un che del ben più fortunato Roberto Pruzzo, con cui ha condiviso, a differente livello, l’amore incondizionato d’una tifoseria giallorossa (il Catanzaro per il marchigiano, la Roma per il bomber di Crocefieschi) e il rimpianto per una carriera che avrebbe potuto essere ben più luminosa. E se per il più volte cannoniere della nostra massima serie, l’appuntamento mancato fu il Mondiale di Spagna (Bearzot preferì scommettere sul redivivo Paolo Rossi e la storia gli diede ragione), per il nostro l’occasione perduta fu la consacrazione, tentata due volte, in A, col Napoli. Ma questo non ne ha scalfito minimamente la memoria (anzi) e l’amore delle aquile calabresi. Ieri Palanca ha compiuto sessant’anni e noi cogliamo l’occasione per dirgli, a modo nostro: “Buon compleanno, O Rey, buon compleanno piedino d’oro“.

Che sinistro, quel ragazzo della provincia anconetana, piede minuto, da ballerina, in grado di imprimere al pallone qualsiasi traiettoria possibile. Lo sanno i portieri che, trafitti da qualsiasi posizione con una spiccata preferenza per la bandierina del calcio d’angolo, straniti raccolgono il cuoio nel sacco. Lo sanno i compagni di squadra, che Massimo stupisce a ogni sessione di tiro in allenamento. Lo sapranno i tifosi catanzaresi che ogni giovedì, giorno di allenamento aperto al pubblico, accorrono a vedere le serie di punizioni con cui Massimo affina il piede, per la gioia dei loro occhi. Talento puro, si sa, per un’Italia che affronta le prime crisi dopo la ripresa, senza immaginare che anni ben più complicati sarebbero dovuti arrivare. Dopo la trafila giovanile a Camerino (tuttora sua residenza), Palanca approda ventenne tra i professionisti delFrosinone, infilando per diciassette volte i portieri avversari e assicurandosi il titolo di capocannoniere del girone della serie C.

Lo notano a Catanzaro del presidentissimo Nicola Ceravolo, in quella pazza squadra che da qualche anno fa parlare di sé: nel 1966, decima nella cadetteria, perde all’ultimo minuto dei supplementari la finale di Coppa Italia contro la Fiorentina, dopo aver giubilato, in serie, MessinaNapoliLazioTorino e Juventus; nel 1970 approda, prima calabrese nella storia del calcio italiano, in Serie A. Subito retrocessa, riconquisterà il massimo palcoscenico proprio grazie a Palanca, ma non senza patemi: nel 1975, il quarto posto a pari del Verona sarà reso vano dalla sconfitta nello spareggio, promozione rimandata di un anno, con piazza d’onore nella stagione successiva. Palanca è il primo condottiero di quelle aquile affamate e rapaci agli ordini di Gianni Di Marzio, che, negli anni, diverranno presenza significativa della massima serie nonché autentici corsari di Coppa Italia, con due semifinali raggiunte (nel ’79 e nel ’82, quando però Palanca milita nel Napoli). Il bomber si adatta bene alla dimensione dello scontro diretto delle coppa, diventandone il cannoniere nel ’79, con otto reti.

Rapido, tecnicissimo, è in grado di stupire con quel sinistro liftato che ha pochi eguali in Italia e, a detta di Sandro Ciotti, in Europa. E arriva pure in nazionale, nel dicembre ’79, quando Bearzot lo chiama a comporre una formazione sperimentale per fronteggiare, a Genova, la Germania Ovest che da qualche anno domina la scena internazionale. Non seguono, però, altre convocazioni azzurre e Massimo si dedica alla causa giallorossa.

Il giorno di gloria, quello da ricordare, risale a qualche mese prima: 4 marzo 1979, il Catanzaro guidato dal romanista Carletto Mazzone espugna l’Olimpico infliggendo alla Roma uno stentoreo 3 a 1. Massimo si porta a casa il pallone, bucando tre volte lo spaesatissimo Conti, la prima volta, ça va sans dire, direttamente dalla bandierina al 5′ del primo tempo. Inutile il pareggio su rigore trasformato da Ago Di Bartolomei, Palanca segna di nuovo prima dell’intervallo e, nel secondo tempo, spegne qualsiasi speranza per Pruzzo e compagni. “Palanca Palanca Palanca“, recita impietoso il tabellone dell’Olimpico. “Massime’, pari ‘na molla” cantano i tifosi in delirio.

Quello che gli manca è, ormai, il fatidico salto di qualità, quel sottile diaframma che separa il bravo giocatore dal campione. Ci prova due volte, a librarsi in aria, a compiere quel benedetto salto, ma non gli va bene: in entrambi i casi è il Vesuvio a fargli ombra. Quando il Napoli lo ingaggia è l’estate 1981, nella speranza che O Rey (il soprannome di Pelè che i catanzaresi adattano per il loro idolo) ripeta le gesta compiute sul Golfo di Squillace. Campionato incolore al primo tentativo e Palanca s’accasa al Como, in B, dove non brilla. Riprova col Napoli, l’anno dopo, ancora senza successo: non si intende con Rino Marchesi, vede diciannove volte il campo e segna un solo gol. Precipita al Foligno, in C2, dove si rigenera, mettendo a frutto qualità tecniche fuori dalla portata dei difensori che lo affrontano ormai con timore riverenziale. Sino alla nuova chiamata del cuore, Catanzaro di nuovo, in C1: vince il campionato 1986/87, sfiora addirittura la A nella stagione successiva, sino alla dolorosa retrocessione in C del 1990, con cui chiude la carriera. Coi giallorossi calabri sono 331 presenze per 115 reti, quattro campionati di A, 38 partite di Coppa Italia per ben 22 marcature. Da professionista, tredici i gol direttamente da calcio d’angolo.

Pensando al calcio di oggi, le considerazioni sono due. In un panorama più vasto come quello attuale, Palanca avrebbe sicuramente avuto più occasioni per affermarsi a livello più alto; sarebbe potuto essere una sorta di Miccoli, che in Nazionale è arrivato nonostante l’ostracismo moggiano; non sarebbe stato, forse, un Di Natale, ché il napoletano trapiantato in Friuli, proprio a fine carriera ha trovato un rendimento che, volenti o nolenti, lo proietta nell’Olimpo dei grandi, dato che (quasi) duecento gol in A non si fanno per caso, oltre alle varie spedizioni nazionali, per quanto sfortunate. Giocare oggi gli avrebbe, inoltre, garantito guadagni sproporzionati rispetto a quelli percepiti negli anni Settanta e Ottanta, rimpianto largamente condiviso da tutta la sua generazione di colleghi, in particolare quella classe media di buoni (e buonissimi) attaccanti, restati sempre un gradino sotto i nazionali o che hanno sfiorato l’azzurro senza imprimervi un forte ricordo di sé; pensiamo, in alto, a Nanù GalderisiFranco Selvaggi (tra i 22, però, di Spagna ’82), il già citato Roberto Pruzzo (escluso da Spagna ’82 nonostante i due titoli di capocannoniere di A consecutivi) o, più in basso, a Maurizio Iorio, il “mitico” Aldo CantaruttiEdi BiviPietro Paolo VirdisClaudio Pellegrini, giocatori pure forti, ma con il rimpianto, forse, di non aver saputo raccogliere tutto quello che avrebbero potuto.

Al netto di queste considerazioni, opinabili e certo non scientifiche, resta il gusto nel ricordare un gran bel calciatore, i suoi gol impossibili, la sua tecnica indiscussa e una bella carriera con qualche rimpianto a rendere il tutto ancor più affascinante. Senza dimenticare la naturale simpatia e la rarissima sorte, riservata a pochi e mai casualmente, di restare per sempre nel cuore d’una tifoseria.
Non sarà tutto, ma è tutt’altro che poco. Buon compleanno, O Rey.

Igor Vazzaz (per gentile concessione dell’autore, fonte: Reloco Sport)

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