Open, Andre Agassi nel nome del padre

17 Luglio 2015 di Stefano Olivari

A sei anni dalla sua uscita Open continua ad essere un libro di straordinario successo in molti paesi, anche in quelli come l’Italia dove i libri sportivi non riescono quasi mai ad uscire dal ghetto del tifo. Forse perché sono nel 90% dei casi scritti da cani, senza offesa per questi meravigliosi animali: temini scopiazzati da Wikipedia o da qualche ritaglio, con l’aggravante di mescolarsi alle vicende personali dell’autore che confonde la rielaborazione (che ci può stare, soprattutto su personaggi arcinoti) con i fatti propri. Come se al lettore fregasse qualcosa di quando Oreste Cacace vide per la prima volta Federer, Pinuccio Bagonghi pianse per il ritiro di Causio o Cristina Pugnetti andò con suo padre a vedere Monza-Solbiatese, il tutto in una prosa da liceali pretenziosi. Non è un caso che i giganti del giornalismo sportivo italiano, rispettosi nei confronti dei libri, di libri ne abbiano scritti pochissimi: da Mario Fossati ad Aldo Giordani passando per Rino Tommasi e pochi altri, con l’eccezione di chi come Gianni Brera i libri sportivi li scriveva con il pilota automatico e soltanto per pagare i conti.

Il caso Open, pur essendo l’autobiografia tennistica un genere molto frequentato, ha diverse peculiarità che possono spiegarne il successo commerciale ma anche quello di critica. La prima: è scritto non da Andre Agassi, da un suo amico o da un giornalista schiavo, ma da un premio Pulitzer come J.R. Moeringher. La seconda: il libro è molto personale, entra nel privato a volte con crudeltà, dando giudizi su se stesso e sugli altri. La terza: pur in mezzo a espedienti letterari e a moltissimo mestiere, si avverte un nucleo di verità molto forte. L’odio per il tennis e al tempo stesso la mancanza di alternative che spingono ad assorbire l’ossessione, uniti al complesso rapporto con il padre Mike, non possono non coinvolgere anche chi di tennis non sa niente. Tutti hanno dovuto o devono rispondere ad aspettative, anche chi pensa di essere libero. La quarta: lo stile. Anche nelle parti più introspettive (lo abbiamo letto in inglese, appena uscito per Alfred A. Knopf, 28 dollari e 95, mentre in Italia è edito da Einaudi) non è mai pesante o autocelebrativo, ma non indulge nemmeno in quel maledettismo di maniera che è il tumore di tanti libri sportivi, del genere Cantona-Vendrame. Moeringher sta sempre un passo indietro rispetto alla letteratura, con una scrittura quasi rap, producendo quindi grande letteratura. La quinta, quella che secondo noi ha fatto la differenza: è scritto per interessare il lettore generalista, ma non offende l’appassionato di tennis spiegando cose troppo scontate, così che il primo riesce a seguire gli sviluppi della carriera del campione mentre il secondo conoscendola già è più attratto dal privato, tipo la lunga storia e il matrimonio con Brooke Shields.

Di sicuro non è un libro contro suo padre, come molti dicono e come in fondo ha fatto comodo allo stesso Mike far credere, per la vendita del suo Indoor (Leggibile, ma aggiunge poco sia a Open che al più datato The Agassi Story). Basta leggerlo con attenzione per rendersene conto: i racconti della telefonata dopo Wimbledon 1992, dell’oro di Atlanta o dei consigli poco prima del ritiro fanno venire in poche frasi la pelle d’oca per quello che padre e figlio si sono detti e non detti attraverso il dragone (una macchina sparapalle modificata da Mike, che costringeva Andre a colpire di controbalzo) e scelte dolorose ma necessarie. Quello che viene spesso descritto come un padre-padrone ebbe l’intelligenza di far partire verso Bollettieri la sua creatura, a quattordici anni, capendo che per il salto di qualità la sua presenza avrebbe fatto più danni che altro. Insomma, un rapporto complesso che Andre ha visto con una prospettiva diversa da quella del bambino che fra i quattro figli Mike aveva individuato come ‘the chosen one’, pur tormentando con il tennis anche gli altri tre. Certo è che nessun bambino farebbe qualcosa di concreto, dal tennis a mille altre attività, se non fosse indirizzato dai genitori: ci sembra una realtà così evidente da non meritare nemmeno una spiegazione.

Personalmente ci ha colpito l’ammirazione di Agassi per Steffi Graf partita da molto lontano, una decina d’anni prima che diventassero marito e moglie (con figli tenuti rigorosamente lontani dal tennis), ma anche il modo tutto sommato equilibrato in cui ha retto la pressione in un mondo dove quasi nessuno, al contrario che in altre biografie di tennis, risulta simpatico: Connors, McEnroe, Lendl, Chang, eccetera, con menzioni speciali per Courier (ma lì influisce il rapporto di entrambi con Bollettieri), Sampras (ritenuto, con pochi giri di parole, campione straordinario ma uomo senza personalità) e Becker (per Agassi uno che se la tirava da intellettuale, senza ovviamente esserlo). Unica icona indiscutibile Bjorn Borg, tifato anche quando giocava contro tennisti americani, Borg che del resto metteva in soggezione, costringendoli quasi ad essere educati, anche Connors e McEnroe. Uno che non caso a venticinque anni è scoppiato di testa, come è successo ad Agassi che però grazie a se stesso, a Brad Gilbert, a Gil Reyes (preparatore e secondo padre) e a John Parenti (ex sacerdote, poi musicista, suo motivatore personale) è riuscito ad avere un secondo tempo migliore del primo.

Open è il miglior libro sportivo della storia? Sì.

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